PIETRO DEL RE, la Repubblica 26/2/2011, 26 febbraio 2011
IO, IL PROFESSORE CHE HA LIBERATO BENGASI" - MA
quale rivoluzione islamica! Non crederà mica alle farneticanti dichiarazioni del colonnello Gheddafi», sbotta Mohammed Manafee, professore di Sociologia alla Garyounis University di Bengasi e leader della rivolta che la settimana scorsa ha decapitato il vertice del regime libico nella parte orientale del Paese. Manafee ha 54 anni, stretti occhiali da miope.
E un tono di voce sorprendentemente flautato per un capopopolo. Tuttavia, quando impartisce un ordine a suoi sottoposti, la sua tranquilla parlantina si increspa spesso di collere brevi. «La liberazione di questa città è stata organizzata, voluta e ottenuta da teste pensanti, da magistrati, medici, ingegneri che non ne potevano più di essere governati da un crudele fantoccio. Le assicuro che Osama Bin Laden non c´entra nulla».
Professor Manafee, è stata davvero una vittoria della società civile?
«Sì, una vittoria che abbiamo ottenuto anche grazie ai nostri giovani e al loro coraggio».
In piazza sono scesi anche i suoi studenti?
«Quando tutto è cominciato, giovedì 17 febbraio, a manifestare davanti alla base militare di Omar El Fadeel non eravamo più di quaranta persone, alle quali s´erano uniti anche gli studenti della mia università. I miliziani ci hanno sparato addosso, uccidendo quattro ragazzi. Per i soldati è stato quello l´inizio della fine».
Perché?
«Perché il giorno dopo a protestare eravamo in mille, due giorni dopo diecimila, e così via, fino alla grande manifestazione di domenica durante la quale siamo riusciti a prendere il controllo della città».
Che cosa succederà adesso?
«Dobbiamo solo aspettare che cada il colonnello. E siamo molto preoccupati, perché è protetto dai suoi pretoriani, i quali sono ancora molto numerosi e armati fino ai denti. C´è il rischio di nuovi bagni di sangue, perché pur di salvare la poltrona sulla quale è seduto Gheddafi sembra pronto a tutto. Guardi quello che ha fatto in questi giorni, o meglio, quello che ha chiesto di fare ai suoi sgherri contro la sua gente».
È vero che lunedì prossimo da Bengasi e da altre città liberate partirà una marcia per Tripoli?
«È un´ipotesi che stiamo valutando, tutto dipenderà dall´evolversi della situazione. Se la capitale rimarrà blindata da miliziani pronti a sparare su manifestanti disarmati, la marcia verrà rinviata. L´ultima cosa che vogliamo è lo spargimento di altro sangue. La nostra rivoluzione è già costata troppi morti».
Oltre a lei, chi è alla testa dei moti libici?
«Siamo tutti al comando della rivolta. Per quanto riguarda l´amministrazione della città, abbiamo creato dei piccoli comitati di gestione; l´aspetto più squisitamente strategico è stato invece affidato sia a quei militari che hanno rifiutato di obbedire a Gheddafi, sia a quella frangia di giovani eroi che ha sconfitto le sue milizie».
Possibile che nella Libia liberata non ci sia un unico capo, un presidente onorario, un sindaco pro-tempore?
«Il nuovo presidente libico sarà scelto dal popolo appena Tripoli cadrà e appena potremo indire le nostre prime elezioni libere. In Libia c´è tutto da fare, tutto da costruire. Da quarantadue anni viviamo nel più assoluto vuoto costituzionale. La prima Carta libica, quella promulgata nel 1951, all´indomani dell´indipendenza, fu abrogata quando Gheddafi salì al potere nel 1969. Ora, sia detto per inciso, quella che lui chiama la sua Rivoluzione fu in realtà un colpo di Stato. Allora, il colonnello scrisse una sorta di Dichiarazione, che prometteva una nuova Costituzione, che però non ha mai visto la luce».
La regione orientale del paese sembra essersi liberata una volta per sempre dal potere dei militari. Ma che cosa potrebbe accadere se il colonnello dovesse riuscire a mantenere il suo dominio su Tripoli? Le sembra verosimile una spartizione del Paese?
«No, mai e poi mai. La divisione della Libia è per tutti un inviolabile tabù. Crediamo fermamente nell´unità nazionale, a differenza di Gheddafi. Il quale usa il rischio del frazionamento del territorio nazionale come spauracchio propagandistico».
Professore, la settimana scorsa, quando Bengasi è stata liberata non c´erano giornalisti stranieri. La versione fornita dai vincitori, ossia da voi, parla di circa cinquecento morti. Ma in città è pieno di caserme e di commissariati bruciati. Quante sono state le vittime tra i poliziotti e i soldati pro Gheddafi?
«Diciamo un quinto del totale. Sarebbero potuti essere molti di più. Ma quando hanno visto che per loro si metteva male, hanno deciso di arrendersi. Quando il comandante della base militare ha alzato la bandiera bianca, la folla di manifestanti ha immediatamente invaso i depositi di armi e neutralizzato ogni sacca di resistenza. Tutto è successo in tempi brevissimi, e con efficienza stupefacente per ragazzi che non avevano dimestichezza né con le armi né con una logica militare».