PIETRO CITATI , la Repubblica 25/2/2011, 25 febbraio 2011
IL MAESTRO DELLA MALINCONIA
Alle Scuderie del Quirinale, si apre il 2 marzo (a cura di Giovanni Carlo Villa), una bellissima mostra di Lorenzo Lotto, il più misterioso e discreto pittore italiano del sedicesimo secolo. Lotto rimane misterioso, sebbene sia uno dei pochissimi artisti che parlano volentieri di sé stessi, sovente con parole angosciose. «Sono solo, diceva, senza fidel governo e molto inquieto di mente»: «ho la mente molto travagliata da varie et strane perturbatione». Non si sente amato dagli uomini. Qualche volta, sembra posseduto da una furia, un oscuramento, ai limiti della follia.
Malgrado queste ombre, turbamenti e inquietudini, delle quali non possiamo dubitare, Lotto possiede una struttura mentale e psicologica di immensa vastità e robustezza, come nessuno, forse, dei pittori veneti del secolo. In tutta la sua lunga carriera di ritrattista, rappresenta una grande figura: quella del Malinconico, che raggiunge tra le sue mani un´intensità e una forza quasi disperate. Il cuore di questo mondo malinconico è il ritratto di Andrea Odoni: un ricco mercante e collezionista di quadri, sculture, monete, gemme e vasi antichi; un raccoglitore di curiosità naturali, radici e serpenti pietrificati, camaleonti essiccati, conchiglie rarissime, coccodrilli. Mentre indossa un ricco mantello scuro bordato di pelliccia, porta al collo una catena d´oro; e in mano un Crocifisso e una scultura di Diana Efesina, senza che possiamo comprendere i rapporti tra queste due figure.
Tra i suoi confratelli, il vero Malinconico è forse il giovane gentiluomo vestito di scuro, custodito nell´Accademia di Venezia. Il giovane guarda in sé stesso, si immerge e si perde in sé stesso: né il liuto, né il corno, né il libro, né l´uccello morto, né i petali di rosa (ogni oggetto è una figura della Malinconia) allontana l´atmosfera sottilmente luttuosa che lo avvolge. Qualcuno potrebbe dire che Lorenzo Lotto non conosce altra figura; la Malinconia viene rappresentata in sempre nuovi personaggi, che ci circondano, ci minacciano, e persino dietro gli squillanti colori rossi e rosa si insinua un´ombra che non dà pace.
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Nella primavera 1524, il Consorzio della Misericordia di Bergamo decise di costruire un nuovo coro nella bellissima chiesa di Santa Maria Maggiore, a Bergamo alta. Come maestro intarsiatore scelse un artista giovanissimo, Giovanni Francesco Capoferri, che si impegnò a «laborare et fabricare et far laborare et perficere uno bello, honorifico et laudabile choro, presbiterio, banchi et ornamenti de la capella grande» nella chiesa di S. Maria Maggiore. Ingaggiò altri intarsiatori, scultori del legno, pittori e tornitori, tra i quali il padre. E per qualche tempo viaggiò nell´Italia settentrionale, specialmente a Verona e a Bologna, per vedere intagli che ispirassero la nuova creazione.
Nel marzo 1524, i Reggenti della Misericordia affidarono l´esecuzione dei cartoni delle tarsie a Lorenzo Lotto, "da Venezia pintore", che in quei mesi lavorava vicino a Bergamo, nell´oratorio di Trescore. Senza saperlo, avevano scelto l´artista più molteplice, complicato e complesso del suo tempo. Quante influenze Lotto aveva conosciuto nella sua carriera: quanti volti aveva assunto – somigliando ora a un pittore quattrocentesco, ora a Holbein, ora a Altdorfer, ora a Correggio, ora a un manierista, ora a un grande pittore barocco in anticipo di cinquant´anni sulla sua epoca, ora a Rembrandt. Non sappiamo se titubasse davanti al nuovo incarico, che lo avrebbe tenuto legato per otto anni. Certo si rese conto che doveva cambiare mano e maniera: in quell´arte delle piccole misure e quasi monocroma, doveva rinunciare alla sua fantasia drammatica, al suo genio architettonico, alle sue accese doti di colorista – a quei rossi e a quei verdi squillanti, a quei contrasti violenti di colore, che lo rendono quasi unico nel Rinascimento. Ma una cosa lo consolò: egli prediligeva i tappeti, specie i tappeti orientali, e una tarsia era quasi un tappeto. Lo entusiasmò l´aria che spirava dal lavoro di Capoferri: quel gioco con il noce, il bosso, il frassino, l´acero, il rovere, il pero, gli strumenti e le tinture, quel minuzioso e febbrile artigianato era proprio ciò che egli amava nell´arte. Davanti a certe finezze prodigiose, abbiamo l´impressione, come pensava Proust nel coro della cattedrale di Amiens, che il legno sia la materia perfetta dell´arte: la più malleabile, tenera e calda, la più adatta ad ogni emozione della fantasia.
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Come ha scritto uno studioso, il Coro di Santa Maria Maggiore è «l´ultima, grande impresa della tarsia italiana»: sia pure nelle misure ridotte, una costruzione spettacolare come le Stanze di Raffaello o la Sistina. «Difficile vedere», diceva Hermann Hesse, «opere che comunichino tanta gioia come quest´arte fedele, raffinata e inconsueta: legni bruni, gialli, verdi, bianchi, mièlati, tutti della medesima vaporosità e con la medesima patina del tempo, sommessamente brillanti in tonalità calde e piene, un benefico, tiepido bagno per la vista». Oggi i pochi visitatori non conoscono che un relitto della grande impresa di Lotto e di Capoferri. Quando Lotto immaginò le tarsie, nel coro potevano accedere solo i Rettori della città, i Curiali, gli anziani, il Minor consiglio, i Presidenti della Misericordia – gli "eletti", che rappresentavano l´ordine divino in terra. Egli voleva rivelare loro (e a noi, infedeli turisti di oggi) le verità dell´Antico Testamento, che anticipava il Nuovo, e un intreccio segreto e onniavolgente di simboli, la giusta maniera di vivere, di conoscere e di morire.
Come molte creazioni di Lotto, il progetto di Santa Maria Maggiore era doppio. In primo luogo, elaborò alcune tarsie narrative, che rappresentano scene dell´Antico Testamento – la Creazione, Abele e Caino, Lot, Mosè, Davide e Golia, Ester, Giuditta, Sansone; con tumultuose scene di folla, palazzi, architetture e giardini, mirabili paesaggi romantici e drammatici, che più tardi Altdorfer avrebbe amato. Tutte le tarsie narrative erano protette da tarsie (coperti), che ne portavano alla luce i significati simbolici, e li collegavano con quelle delle altre scene, in una rappresentazione cifrata dell´universo morale. Era un´abitudine cara a molti pittori del Cinquecento. Il visitatore moderno è, da principio, meravigliato. Ci attendiamo che la semplice narrazione sia come la scorza che introduce alla verità segreta; e invece il simbolo misterioso (il coperto) è ciò che appare e si manifesta agli sguardi. Lotto trasformò completamente ciò che gli venne suggerito: trasformò l´oscurità dello scritto nello splendore del visibile. «Sapiate – egli scrisse ai suoi committenti – che son cose che non essendo scritte, bisogna che la imaginatione le porti a luce».
Nelle tarsie simboliche dei coperti, si esprime la filosofia neoplatonica, che ispirò la grande pittura del Rinascimento, sebbene Lotto vi aggiunga assonanze alchemiche e cabbalistiche, derivate dalla sua cultura e da quella dei suggeritori. Dappertutto echeggia il ricordo di Plotino, di Dionigi l´Aeropagita e di Marsilio Ficino. I temi sono quelli della letteratura mistica, che da Apuleio conduce a Giovanni della Croce. La miseria dell´uomo immerso nel tempo: la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo: la fecondità dell´anima ispirata da Dio, opposta alla sterilità della mente razionale: l´ardore della caritas: il furore e l´ebbrezza dionisiaca dell´amore cristiano: la comunicazione tra Cristo e il fedele: la bellezza e la musica eterna dei cieli: l´anima che si immola e si perde in Dio: lo slancio verso la patria celeste: l´alchimia come redenzione della natura; la coincidenza dei contrari… Ogni tarsia è un intreccio di significati: spesso la verità morale coabita con un´altra verità morale, o alchemica, o cabbalistica, che non coincide con lei, o addirittura la contraddice, in modo che alla fine ci sembra di camminare in una foltissima e quasi inestricabile foresta di simboli.
In ognuno dei coperti, c´è un profondo divario, quasi un abisso, tra la cosa simboleggiata e la rappresentazione simbolica. Il contenuto non è mai identico alla sua forma; e attraverso questo divario il segreto irrompe trionfalmente alla luce. Lotto sapeva di raccontare il dramma dell´anima umana: la sua miseria nel corpo, il suo desiderio di Dio, la sua ascesa al cielo. Ma, alla superficie, cosa vediamo? Quasi sempre, Lotto gioca nel modo più leggero, frivolo e talvolta assurdo con gli oggetti, i festoni, l´occhio di Dio, gli alberi, le pietre, le corazze, le maschere, gli emblemi alchemici, gli specchi, le spade, le rocce, le mani intrecciate, i fiumi di fuoco, le palme, i cerchi, le fiamme del nostro olocausto. Come nell´arte dei misteri che discende da Apuleio, egli affaccia un enigma. Chi guarda le tarsie propone questo enigma alla propria intelligenza: lo medita, lo interroga, lo scruta, e infine lo risolve, sebbene la completa rivelazione della verità nascosta sia impossibile. Tutto è un gioco, per Lotto come per noi: ma niente è più grave e profondo di questo lievissimo gioco.
Mentre le grandi narrazioni bibliche erano folte e congestionate, nei coperti regna l´immobilità nitida e serena della natura morta. Come un disinteressato decoratore, Lotto disegna geometrie perfette: cerchi, aste, linee; e talvolta varca i limiti dell´astrazione. Là rappresentava folle in fuga, in battaglia o in furore, che riempivano interamente lo spazio: qui domina il vuoto, solcato soltanto dalle tinte e dalle venature del legno, dove si iscrivono pochi emblemi. Là Lotto rendeva mirabilmente il senso del tempo, attraverso scene che si moltiplicavano e si succedevano nell´unità della scena. Qui non c´è più tempo: la verità segreta si incide fuori da ogni ritmo o battito temporale, nell´eternità dell´anima contemplativa.
Lotto non è mai un freddo decoratore. Quale immaginazione grandiosa, quale ardente potenza figurativa si impadronisce perfino degli elementi più decorativi, come i festoni, le palme, le corone, gli intrecci floreali. Dovunque è presente Dio: l´occhio, le braccia, le mani, i piedi della prima persona della Trinità, del Creatore del cielo e della terra, che sembrano far dimenticare la figura umana di Cristo. Lotto avrebbe potuto compiere il balzo definitivo, che nessuna fantasia occidentale ha mai osato, e rendere Dio in forme puramente astratte: un triangolo, un cerchio. Non ha voluto compiere questo balzo. Niente è più antropomorfico e fisico del tremendo occhio di Dio, di cui conosciamo la palpebra, la cornea, l´iride, la pupilla, e l´irradiazione luminosa, che ci vede e ci segue da ogni parte. Dio è onnipresente: trae il mondo fiammeggiante dal nero caos, foggia il sole e la luna, ci guarda, ci condanna e ci protegge, si intenerisce nel circolo della vita umana; niente gli sfugge o gli rimane nascosto. Il suo occhio ci inquieta. Qualche volta immaginiamo che sia lo sguardo di Lorenzo Lotto – l´umile, il nascosto –, che diventa visibile nella sua creazione.
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La mia ammirazione per le tarsie di Lotto è immensa: mi sembra che egli raggiunga un luogo al di fuori dell´arte; molti penseranno che io esageri, sebbene Hermann Hesse condividesse la mia venerazione. Ma avrei torto a dimenticare lo straordinario colorista, che dal 1500 al 1556 dipinse a Treviso, Venezia, Bergamo, Jesi, Recanati, Asolo, Loreto. Come dimenticare il volto roseo, puntuto e arrogante del vescovo Bernardo de´ Rossi? E il sogno della fanciulla, su cui un putto alato versa in grembo una cascata di fiorellini bianchi? E i grandi trionfi celesti, con la colomba dello Spirito Santo, e le nuvole candidissime, e il Paradiso? E le nozze mistiche di santa Caterina, con gli abbracci intrecciati e la luce e i colori quasi correggeschi? E le scure figure dei grandi Melanconici? E la veste rossissima di Cristo Portacroce? E le celesti-argentee vesti della Madonna di Vienna? E l´orefice, che replica tre volte il suo viso? E la splendida cortigiana tizianesca, con le vesti rosso-arancione? E la tarda presentazione di Gesù al tempio, che sembra dissolvere il mondo della cenere?
Coi primi decenni del sedicesimo secolo, si ha l´impressione che la cultura religiosa muti sfondo. Cristo ha meno rilievo: mentre Maria e gli angeli tendono ad esprimere il mondo dell´anima. Prima di ogni altro quadro vorrei ricordare il meraviglioso polittico di Ponteranica, con l´angelo in alto a sinistra: la colomba luminosa dello Spirito Santo, il volto femminile benedicente, il giglio, le ali quasi grigie, la tenerissima, delicatissima, leggerissima veste rosa; un rosa incorporeo che non ho mai visto, come non ho mai visto un angelo simile, che con Bernard Berenson vorrei chiamare Ariele, ricordando la figura della Tempesta di Shakespeare.
Dipinta qualche anno dopo (1534) L´Annunciazione di Recanati occupa uno spazio completamente terreno: il letto, la mensola, i libri, il calamaio, il candelabro, il gatto che fugge, la spalliera di rose, il pergolato; perché lo spazio riservato a Maria è l´Hortus conclusus, che si apre solo qui, nel nostro mondo. L´hortus viene violato dalla figura di Dio che occupa il cielo, e dall´angelo azzurro, luminoso e violento. Maria non capisce: forse è incerta e sconvolta: forse sorride; forse si inchina. L´altro mondo si è installato improvvisamente nel nostro; e noi, come Maria, che volge la schiena a Dio e all´angelo, non possiamo guardarlo negli occhi.