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 2011  febbraio 25 Venerdì calendario

I PADRONI DEL VAPORE IN GINOCCHIO DAL DUCE - «NOI INDUSTRIALI

siamo ministeriali per definizione» era solito dire il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli. La frase è riferita da Felice Guarneri, altro grande esponente del mondo economico italiano nella prima metà del secolo scorso, che la cita nelle sue memorie, pubblicate nel 1953, per spiegare il consenso degli industriali al potere fascista. Anche Guarneri era stato uno stretto collaboratore di Mussolini come sottosegretario e poi Ministro degli scambi e valute dal 1935 al ’39. Inoltre, conosceva bene gli industriali, essendo stato per quindici anni segretario generale della Confindustria e dell’Associazione fra le società italiane per azioni. Dell’industriale come categoria, Guarneri esaltava le qualità imprenditoriali ma, riferendosi al loro atteggiamento verso il potere politico, ne denunciava anche i «gravi difetti»: «La natura egocentrica, lo scarso senso del collettivo, che lo porta a sottovalutare e a misconoscere gli interessi di carattere generale», «una mentalità che lo portava a vedere ogni cosa quasi esclusivamente sotto l’angolo visuale del suo “particulare” e a praticare i ogni caso, per la propria azienda, la politica del “sacro egoismo”». PER QUESTO, spiegava l’economista, gli industriali «hanno sempre puntato sul cavallo vincente»: e ciò non tanto per cinismo, quanto piuttosto per necessità, essendo l’Italia un paese «dove lo Stato tiene in mano le leve del comando di tutta l’economia». Un atteggiamento non dissimile verso il potere, Guarneri lo attribuiva al popolo italiano, «il quale, sotto l’assillo della necessità, è spinto a cambiare di tessera e di bandiera politica ad ogni cambiar di vento».
La generalizzazione dell’«opportunismo per necessità» era in verità una debole giustificazione per il «riservato conformismo» degli industriali verso il governo fascista, e ne aggravava anzi la responsabilità, quale parte importante della borghesia dirigente, per aver promosso il consolidamento di un potere totalitario, che era la negazione integrale dei principi e dei valori della civiltà liberale, su cui era stato costruito lo Stato italiano fondato dal Risorgimento. Per sessanta anni, quei principi e quei valori erano stati salvaguardati, pur se fra contrasti, resistenze e tentazioni autoritarie, dalla maggior parte degli uomini che si erano avvicendati al governo del paese; tanto che gli stessi maggiori oppositori dello Stato liberale, i cattolici e i socialisti, poterono organizzarsi politicamente fino a diventare i due partiti più numerosi nella prima Camera dei Deputati eletta col suffragio universale maschile nel 1919, all’indomani della Grande Guerra.
L’ABDICAZIONE
DELLA CLASSE DIRIGENTE
FU ALLORA, tuttavia, che la borghesia liberale e laica, impaurita dalla sfida delle nuove forze sociali e politiche esaltate dal miraggio della rivoluzione bolscevica, abdicò al ruolo di classe politica dirigente peraffidarelasalvezzadelloStatonazionale,ladifesa della proprietà e la restaurazione dell’ordine nel paese, nelle campagne e nelle officine, al duce di un partito armato, che era giunto al potere con la violenza. Nel 1922 gli industriali puntarono sul cavallo vincente del fascismo, illudendosi di poterlo addomesticare e imbrigliare per legarlo al carro di uno Stato liberale restaurato e rafforzato. E quando dopo il 1925 Mussolini avviò la demolizione dello Stato liberale e la costruzione dello Stato totalitario, gli industriali, accantonata ogni residua remora sui metodi liberticidi del fascismo, si disfecero della tradizione liberale e, convertiti o meno che fossero al credo fascista, accettarono volentieri di sottomettersi alpoteredelduce.Furonopochissimigliuominidella borghesia dirigente che non vollero sottomettersi al fascismo trionfante e restarono fedeli agli ideali e aivaloridellatradizioneliberaleelaica.CosìfeceLuigi Albertini, il direttore del “Corriere della Sera”, che all’indomani del delitto Matteotti, il 24 giugno 1924, parlò con coraggiosa dignità al Senato contro un governo di partito, che stava rinchiudendo il paese in «una prigione della coscienza»: «Fosse questa prigione della coscienza del mio paese la più lussuosa, la piùilluminata,lapiùampia,sarebbesempreangusta e opprimente a quanti più della vita amano la libertà, perché dove non c’è libertà non c’è vita vera».
Gli industriali accettarono di vivere nella «prigione della coscienza» ricevendo in cambio dal regime cospicui benefici, che valsero a tacitare i loro dubbi su talune scelte politiche del duce. Così, alla fine degli anni Trenta, come osservò un grande industriale elettrico, Ettore Conti, si formò in Italia «una oligarchiafinanziariacherichiama,nelcampoindustriale, l’antico feudalesimo», perché la produzione era in gran parte «controllata da pochi gruppi, ad ognuno dei quali presiede un uomo. Agnelli, Cini, Volpi, Pirelli, Donegani, Falck, pochissimi altri, dominano completamente i vari rami dell’industria». A quella oligarchia apparteneva lo stesso Conti, che in uno pseudo diario, pubblicato nel 1946, confessò di vergognarsi per non aver creduto in chi fin dall’inizio del regime fascista ne aveva previsto gli inevitabili esiti, e per non aver saputo reagire come era dovere di una classe dirigente. Per anni, gli industriali sono stati descritti nella storiografia come «i padroni del vapore».
L’ANTIFASCISMO INTIMO
DI ALBERTO PIRELLI
MA DALLE RICERCHE più recenti è emersa una diversa realtà, che non era, come ha scritto Luciano Zani,biografodiGuarneri,larealtà«dell’influenzadi quelle forze sul fascismo, bensì della loro dipendenzadaesso,dellaloroincapacitàdiinciderenellescelte politiche di fondo, della loro subalternità, della loro impotenza». Solo nei mesi precedenti la caduta di Mussolini, travolto dalla disfatta militare, gli industriali cominciarono a dissociarsi cautamente dal regime totalitario, accingendosi a puntare sul nuovo cavallo vincente.
La «prigione della coscienza» fu abbattuta sotto l’urto delle armate alleate, non per iniziativa degli industriali né della borghesia. Seguirono, dopo il 1945, le rivelazioni di un antifascismo intimo e retroattivo, fatte alla commissione per l’epurazione da grandi industriali, che con il regime avevano volentieri collaborato. E come Alberto Pirelli, che fino all’inizio della seconda guerra mondiale era stato fautore della politica espansionista dell’Italia fascista, quasi tutti ebbero l’assoluzione. Usciti per grazia altrui dalla «prigione della coscienza», dove avevano vissuto molto confortevolmente per quasi un ventennio, gli industriali constatarono che, dopo tutto, il loro «particulare» poteva prosperare anche con la «prigionia della coscienza». E forse anche più facilmente che in regime di libertà.