Marco Belpoliti, l’Espresso 3/3/2011, 3 marzo 2011
E PLAYBOY CREO’ L’EROS
Com’è cominciato tutto? Com’è accaduto che siamo arrivati a questo punto? Prima della tavernetta di Arcore, prima delle grotte di Villa Certosa, delle piscine sotterranee, della lap dance, dei letti girevoli, dei grandi divani, delle case arredate secondo i desideri di un Peter Pan fallocratico, delle Neverland sarde o delle ville pornobrianzole, cosa c’era?
Tutto ha inizio con un laureato in psicologia, Hugh Hefner, congedato da poco dall’esercito. Siamo nel novembre del 1953, in piena Guerra fredda, quando giunge nelle edicole americane una nuova rivista priva di data e di numero progressivo: pezzo unico. Si chiama "Playboy" e vende in pochi giorni 50 mila copie. All’epoca in America vigono leggi severe contro la pornografia. Non esiste la controcultura con le sue provocazioni, e il Greenwich Village è solo un luogo un po’ bohémien. La Beat Generation deve debuttare, mentre Elvis guida ancora un camion a Memphis; inoltre, chi va in giro con una copia di "Tropico del Cancro" di Henry Miller rischia l’arresto.
A far salire le vendite di quel primo numero della nuova impresa commerciale è la fotografia di Marilyn Monroe scattata da Tom Kelley, e comprata a modico prezzo da Hefner in una casa editrice di calendari e poster di pin-up che vi ha rinunciato per non rischiare una denuncia per oscenità. Con quell’immagine, poi diventata celebre, Hefner inventa la pornografia moderna. Non perché ha usato un nudo umano, scrive Beatriz Preciado, 41enne filosofa spagnola, allieva di Agnes Heller e Jacques Derrida, nel suo libro "Pornotropia" in uscita con Fandango. Il padrone di "Playboy" inventa la pornografia moderna perché ha impiegato design e colore, e disposto il nudo in un pieghevole che fa della rivista solo un supporto: contrasto, colore rosso , ingrandimento, e soprattutto pagina doppia. Tutto questo è più pornografico del nudo stesso.
Da qui, da un modesto evento editoriale, è cominciato tutto, almeno nella imponderabile catena delle cause e degli effetti. Quello che "Playboy" ha prodotto non è stato tuttavia solo un impero economico fondato sul sesso, sulle immagini del sesso, prive del sesso vero, e neppure un grande cambiamento nel costume di uomini e donne riguardo la sessualità, quanto piuttosto il modo con cui far irrompere nella sfera pubblica ciò che era considerato privato. Certo, il processo che porta al superamento della distinzione tra pubblico e privato era già iniziato con l’avvento della televisione negli Stati Uniti (in Italia la tv arriverà nel 1954, e il suo impatto sarà forte solo a partire dalla metà dei Sessanta); tuttavia, sottolinea Preciado, "la cosa pornograficamente moderna era la trasformazione di Marilyn in una informazione visuale meccanicamente riproducibile capace di suscitare effetti corporali".
"Playboy" non è solo una rivista di nudi, oltre che d’intrattenimento colto - nel primo numero contiene articoli sul jazz, sul "Decameron", brani di "Sherlock Holmes" - ma anche una rivista d’interni: un reportage sul design per l’ufficio moderno. Da allora in poi, la creatura di Hefner ha lavorato sullo spazio e sulla sua immaginazione. Meglio: sullo spazio immaginario. Ha creato una nuova mentalità, e un consenso, cambiando il modo di sognare a occhi aperti di milioni di americani, e poi di europei. Ha inventato "nuove modalità di produzione di senso e soggettività che avrebbero caratterizzato la cultura americana del Ventesimo secolo". Con ogni probabilità senza la rivista per uomini di Hefner non ci sarebbe stato Andy Warhol: la sua Factory, luogo dell’immaginario trasgressivo e creativo, tana dell’arte del Novecento, è pensabile solo in rapporto simmetrico alle case allestite da Hefner, al letto girevole su cui il padrone di "Playboy" lavora eternamente in pigiama, cancellando la differenza tra giorno e notte, tra feriale e festivo, tra attività di direzione e attività sessuale. Sul letto coperto di fogli e fotografie, avvengono gli incontri d’affari e i meeting con le conigliette, il tutto registrato con mezzi visivi e sonori, uno spettacolo continuo che va in onda prima dell’epoca del "Grande fratello" e dei social network. Il giaciglio è meccanizzato, ruota su se stesso; ha telecomandi, telefoni e tv; e funziona, dice la Preciado, come "uno spazio in cui si modella il nuovo soggetto ultraconnesso, e i nuovi piaceri virtuali e mediatici dell’ipermodernità farmacopornografica".
Hefner ha realizzato per mezzo delle pagine del suo periodico, ma anche mediante le foto della sua casa, e poi dei Playboy Club, la teatralizzazione dello spazio domestico, sottraendolo al dominio della donna e destinandolo al dominio del maschio eterosessuale, singolo, magari divorziato: un James Bond della vita quotidiana. L’agente 007 è un altro dei miti dell’epoca, che dalle pagine dei romanzi di Ian Fleming, pubblicati negli anni Cinquanta, si trasferisce sullo schermo nel decennio successivo. Hefner a posteriori ha raccontato così il proprio progetto: "Volevo una casa da sogno. Un luogo nel quale fosse possibile lavorare e anche divertirsi, senza problemi e i conflitti del mondo esterno. Un ambiente che un uomo potesse gestire da solo. Lì sarebbe stato possibile trasformare la notte in giorno, vedere un film a mezzanotte e chiedere che fosse servita la cena a mezzogiorno, partecipare a incontri di lavoro in piena notte e avere incontri romantici la sera. Mentre il resto del mondo restava fuori dal mio controllo, nella Playboy Mansion tutto sarebbe stato perfetto". Un luogo che però non è completamente isolato: l’abitante della casa di "Playboy" "è una versione erotizzata dell’uomo iperconnesso di Marshal McLuhan". L’edificio che Hefner fa progettare a Chicago come residenza, è l’emblema del suo impero: una casa di tre piani, con la facciata in vetro e cemento, trasparente. Illuminata durante la notte, doveva rendere visibile l’interno, così che dalla strada si poteva distinguere il piano terra con la Porsche parcheggiata. Ma il punto focale della Mansion è la piscina. Si trova al centro dell’abitazione e ha una forma irregolare, quasi una grotta, che vuole dare ai visitatori l’impressione di una costruzione che sorge intorno allo specchio d’acqua: fonte di vita e giovinezza. Quando nel 1971 il padrone di "Playboy" sposta la residenza a Los Angeles, la grotta ne diventerà il centro: un’isola artificiale climatizzata, il paradiso in terra, un "caldo utero".
All’inizio il simbolo della società di Hefner è un cervo (stag), richiamo al rito maschile della caccia, ma anche delle serate per soli maschi, in cui si vedono in case private filmini pornografici muti: stag party. Poi con un colpo di genio grafico, il logo diventa "un coniglio di bell’aspetto, giocherellone e sexy che indossa uno smoking". Quando Paul Art, suo collaboratore, finisce di disegnare l’emblema, appare il coniglietto "Playboy": un animale infantile e privo d’imbarazzo dedito a cacciare femmine senza uscire di casa, Bunny. Non è un caso, basta guardare le date. Negli anni Quaranta l’economista Eugene Gilbert conia il termine "teenager", mentre nel 1942 il sociologo Talcott Parson inventa l’espressione "cultura giovanile" per indicare le nuove pratiche sociali degli adolescenti, consumatori di musica, alcol, droghe: i giovani che sfuggono al controllo della civiltà puritana. Nel dopoguerra la natalità ha un’esplosione; e il teenager si presenta come il consumatore ideale della nuova pornografia e della mascolinità urbana che domina nelle pagine di "Playboy". Negli anni Quaranta, il sogno americano si fondava sull’amore coniugale, con la donna che governa la casa e l’uomo che affronta la vita lavorativa ed economica. Ora, inizio anni Cinquanta, Hefner propone la ridefinizione della mascolinità: basata sul consumo, sulla grande quantità di incontri eterosessuali, tutti aspetti che in Italia giungeranno solo alla metà degli anni Sessanta, come avrà modo di scrivere Pasolini.
Nel 1954 nasce la Playmate, la coniglietta. Il gioco è fatto. Un anno dopo, nel luglio del 1955, nel pieghevole appare Janet Pilgrim, una segretaria del settore abbonamenti di "Playboy" di 21 anni, che accetta di posare nuda "perché sa che questo aumenterà gli abbonamenti di dicembre", e con il patto che "il capo compri una macchina automatica per stampare gli indirizzi in modo da alleggerire il mio lavoro". Una trovata di Hugh. Ha trasformato la sua amante, Charlaine Karalus, nella coniglietta del mese: la distanza tra lavoro e sesso, pubblico e privato, è minima. Pilgrim è il primo modello delle future famose-sconosciute dell’era tv dei decenni successivi, anticipate dalla produzione delle star di Hollywood, e quindi teorizzate da Warhol con la sua frase sul quarto d’ora di celebrità, che spetterebbe a chiunque. Ma c’è d’altro: Hefner fa entrare la vita privata (spazio domestico, corpo) nel processo produttivo: "La trasformazione della segretaria e amante in "ragazza del mese", rendendo pubblica la sua vita privata, è un processo di capitalizzazione della vita". "Playboy" anticipa i tempi e indica il futuro (il nostro presente), poiché "mette al lavoro" la vita privata stessa. Non si fa sesso, tuttavia il sesso diventa una forza produttiva. Decenni dopo, per dirla con l’economista Christian Marazzi, seguendo quel modello, Google e Ikea, Facebook e Twitter, faranno lavorare i consumatori alla produzione del loro stesso bene-servizio. Il miliardario americano trasforma il desiderio in sistema per produrre valore. In tutto questo la strategia visiva diventa decisiva: e c’è simbiosi e scambio, con la Pop Art.
"Pornotropia" utilizza una celebre formulazione di Michel Foucault che nel 1967 aveva parlato di "eterotopie", luoghi provvisori, che recano il retaggio di spazi e architetture "diversi": la cella monacale, il collegio, la caserma, la prigione, ma anche la clinica, la casa di riposo. Un discorso, che ci fa guardare con occhio diverso l’invenzione del pornospazio di Hefner, colui che ha avuto l’ardire di introdurre Sade in America, sostituendo la coda della coniglietta alla frusta del divin marchese. Il bordello soft di "Playboy", è un "luogo senza luogo", per dirla con Foucault, che vive per sé. E qui parliamo di casa nostra. Che lo sappia o no, chi ha creato "Colpo grosso" e "Drive In", e le altre trasmissioni tv dell’impero mediatico del Capo - lui stesso regista e produttore d’immaginario - non ha fatto altro che sviluppare la pornotropia del padrone delle Playmate, mettendo la pubblicità dei prodotti al posto del sesso femminile. Là come qui, non c’è differenza tra pubblico, la trasmissione tv, e privato, la villa brianzola o la magione sarda. Il privato è pubblico e il pubblico è privato. Se non fosse che tutto accade con cinquant’anni di ritardo. Inoltre, l’ultrasettantenne porno-leader di Arcore, a differenza di Mister Hefner, allora giovane imprenditore di se stesso, ha la pretesa di dirigere un intero Paese, la sua vita diurna, e non solo la sua notturna produzione onirica.