Gilberto Oneto, Libero 23/2/2011, 23 febbraio 2011
RIDICOLO E RETORICO MAMELI È PER GUITTI Per 250mila euro Roberto Benigni ha intessuto il panegirico dell’inno di Mameli, trattandolo come la Divina Commedia
RIDICOLO E RETORICO MAMELI È PER GUITTI Per 250mila euro Roberto Benigni ha intessuto il panegirico dell’inno di Mameli, trattandolo come la Divina Commedia. È da un po’ che il brano è tornato di moda: ignorato per decenni, viene ora gorgheggiato in tutte le occasioni con una enfasi giustificata solo dalla paura per il federalismo e l’autonomismo. Strana storia quella dell’inno: è stato ufficializzato solo nel 2006, prima era solo «provvisorio». In precedenza l’Italia unita era rappresentata musicalmente dalla “Marcia Reale”, affiancata per un ventennio da “Giovinezza”. Il Regno del Sud di Brindisi aveva utilizzato l’“Inno del Piave”. I cambiamenti hanno generato nel secondo dopoguerra una serie di gustosi contrattempi soprattutto negli stadi, quando all’estero sono stati suonati numerose volte gli inni desueti e in una occasione per non sbagliare addirittura “O’ sole mio”. Monarchia ignorata Dopo un certo successo in epoca risorgimentale, il brano mameliano era stato un po’ accantonato fino al suo ripescaggio da parte della Rsi che lo usava come suo inno. Oggi in molti si affannano a precisare che Salò non l’aveva mai ufficializzato. È vero: c’era altro di cui preoccuparsi, però di fatto era l’inno della Rsi, che lo aveva scelto perché non contiene alcun accenno alla monarchia. Per la stessa ragione è stato ereditato dalla nuova Repubblica che il 12 ottobre 1946 lo ha preso come inno militare provvisorio, e che ci ha messo anni a ufficializzarlo, forse per pudori antifascisti, ora accantonati dal più urgente antileghismo. Non è una meraviglia: i sudtirolesi lo chiamano «italienisch zumpappazum». La musica è stata composta da Michele Novaro, che non è ricordato per altri capolavori. In realtà non gli è dato il credito che solitamente spetta ai musicisti neppure per questo inno che cosa unica nell’universo musi- cale è chiamato col nome dell’autore dei versi: come se, a esempio, l’“Aida” fosse del librettista Ghislanzoni più che di Verdi. Neanche in epoca risorgimentale il brano brillava per qualità, soprattutto in un contesto in cui c’erano ben altre presenze nella simbologia politica musicale: l’inno del Regno delle Due Sicilie era opera di Paisiello, “La Leopolda” toscana di Monsel, e il popolare “Serbidiola” dell’Impero asburgico niente meno che di Franz Joseph Haydin. Oltre alla già citata “Marcia Reale” di Gabetti, anche il più significativo “Inno Sardo” era più dignitoso e solenne con il suo «Conservet Deus su Re / Salvet su Regnu Sardu». Neppure i versi meritano un posto di rilievo nella letteratura. Nella versione ufficiale essi sono attribuiti a Gotifredo Mameli dei Mannelli, detto Goffredo. In realtà però come ha documentato Aldo Mola il vero autore dei versi sarebbe stato il suo precettore, il padre scolopio spezzino Atanasio Cannata, frate del convento ligure di Carcare, da cui il gio- vanissimo patriota lo avrebbe copiato. Ha argomentato Mola che pur nel suo sviluppo retorico il testo è troppo elaborato per uno studentello che all’epoca aveva una prosa piuttosto incerta, quasi dipietriana. Il Cannata aveva invece una lunga dimestichezza con la letteratura e la storia, e si sarebbe lamentato del plagio in versi: «Meditai robusto canto / ma venali menestrelli / mi rapinar dell’arpa il vanto». Poi però non ha insistito più di tanto: non c’erano allora i diritti Siae, la sua condizione di servo del Signore lo spingeva alla mitezza, forse provava pietà per il povero Mameli morto a 22 anni o più maliziosamente non era particolarmente orgoglioso del prodotto. Metrica zoppicante Nonostante il costoso impegno di Benigni, la metrica non è infatti delle più esaltanti e soprattutto i contenuti non hanno l’afflato libertario o poetico di altri inni. C’è dentro tutto il parafernale della ricostruzione della storia a uso patriottico: dai Vespri a Legnano, dal povero Ferruccio a Balilla, in seguito destinato a riutilizzi anche meno commendevoli. Il titolo originario era “Il canto degli italiani” e cominciava nella prima versione con «Evviva l’Italia/ l’Italia s’è desta». Il «fratelli», che è arrivato dopo, è quasi sicuramente un riferimento ai “fratelli” delle logge massoniche, molte delle quali anche per riconoscenza sono in seguito state dedicate a Mameli. Si tratta di una variante figlia della temperie culturale del tempo più che di una accertata affiliazione del cattolico Mameli alla Massoneria, di cui non esistono prove sicure. Per rispetto della verità occorre dire che quasi certamente il Mameli non si è neppure mai attribuito palesemente la paternità dei versi: Ulisse Borzino, l’intermediario che aveva portato il testo nella casa torinese di Lorenzo Valerio (il vero sponsor dell’opera- zione musical-patriottica) per farli musicare da Novaro, lo avrebbe fatto dicendo «lo manda Mameli» e non «è di Mameli», il quale li aveva forse solo ricopiati per ammirazione. A Mameli va però sicuramente riconosciuta la coerenza: evidentemente credeva nelle cose anche un po’ trombonesche che ha trascritto fino al punto da sacrificarci la vita, sia pur per “fuoco amico”, essendo morto di infezione per una banale ferita di baionetta o di fucile inferta maldestramente da un commilitone. Mameli era il rampollo di una famiglia altolocata: suo padre era ammiraglio della Marina Sarda e la madre, Adelaide (Adele) Zoagli, era una nobildonna genovese che racconta il gossip risorgimentale era stata amante di Giuseppe Mazzini. La cosa sarebbe accaduta in anni che ci mettono al riparo dalla possibilità che anche questa si aggiunga alle tante paternità corsare che riempiono la biografia del ragazzo-padre (della patria) Mazzini, ma anche di tutti gli altri più rinomati patrioti. Nel suo complesso l’inno non corre il rischio di essere considerato un capolavoro. In passato c’è chi ha proposto di sostituirlo con altre musiche più dignitose. Pavarotti aveva addirittura proposto di adottare “O’ sole mio”. Nel suo passato c’è anche una divertente storia di lucrosi balzelli che la Siae ha dal 1882 continuato a riscuotere per conto della casa editrice San- SUL PALCO DI SANREMO Roberto Benigni durante la sua esibizione al festival di Sanremo LaPresse zogno, detentrice dei diritti della cosiddetta “musica a stampa”, e cioè del noleggio degli spartiti musicali. La cosa sembra essersi risolta solo nella primavera del 2010 in seguito alle proteste del Comune di Messina, che si era visto recapitare una richiesta di pagamento per aver fatto pubblicamente suonare l’inno di Mameli e cioè quello che da quattro anni era ufficialmente l’inno nazionale. Comico ben pagato Insomma, l’inno ha conosciuto nominazioni sbagliate, plagi, finte attribuzioni, accuse di eccessiva retorica e scarsa qualità musicale, controversie di copyright, accuse di fascismo e altro ancora, e proprio per tutto ciò sembra perfetto per rappresentare il Paese. Dopo un lunghissimo travaglio, ha finalmente trovato la definitiva consacrazione popolare come inno nazionale nel modo più consono, per mezzo di un guitto ben pagato e a Sanremo, vera capitale di questa Italia.