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 2011  febbraio 24 Giovedì calendario

QUELLA VOLTA CHE IL RAIS CHIESE DI LICENZIARE FRUTTERO

«Pare che Gheddafi sia in realtà una creatura della Cia. Non muove un dito senza chiedere il permesso a loro. Pare che lui non conti assolutamente niente. Sono quei due sacerdoti che si porta sempre appresso che hanno in mano tutto quanto. I discorsi, pare che glieli scriva un geometra italiano, un certo Cavalli. Di Novara. Un fanatico religioso? Ma figurarsi! Pare che, quando è stato ospite di Tito, si sia mangiato un cinghialino arrosto tutto da solo. No, lui personalmente è un uomo straordinario. Pare che lavori 22 ore al giorno. E pare che...». Chi, nel lontano 1973, in piena crisi petrolifera, ebbe l’ardire di scrivere frasi così dissacranti nei confronti del dittatore libico? Non potevano essere che due fuoriclasse come Fruttero & Lucentini. Il dicembre di quell’anno, su La Stampa di Torino, uscì un memorabile articolo, «Pare che», a commento di una conferenza stampa dove Gheddafi trattò a pesci in faccia i giornalisti convocati.
Passa qualche giorno e il capo ufficio stampa dell’Ambasciata di Libia a Roma invia al giornale una lettera di fuoco dove esprime tutta l’indignazione «per gli insulti, le insinuazioni, le menzogne, le sciocchezze e le allusioni di cui l’articolo è pieno in tutte le sue parti, contro il capo di una nazione giovane, Moamer Al-Kasafi, il quale ha condotto e tuttora conduce una rivoluzione liberatrice dall’imperialismo e dallo sfruttamento, per assicurare un avvenire migliore al suo popolo, per sopprimere con ogni mezzo una nuova forma di colonialismo» .
I due dovettero in qualche modo scusarsi perché non solo veniva chiesto il loro licenziamento in tronco e quello del direttore Arrigo Levi, «che è ebreo», ma veniva anche minacciata una rappresaglia economica nei confronti della Fiat, che «non potrà più esportare nemmeno un bullone nei Paesi dell’Islam».
Anni dopo, proprio al «Corriere», Fruttero ricordava così l’episodio: «Eravamo a Parigi, in un caffè davanti al Luxembourg e leggevamo di questo colonnello col maglione nero che aveva convocato duecento giornalisti occidentali proprio lì, a Parigi, li aveva fatti aspettare per ore sul marciapiede, aveva rimandato e rimandato e rimandato l’appuntamento e poi non si era presentato. Scrivemmo questo articolo, ma non pensavamo di offendere nessuno, Gheddafi era un pretesto. Ci interessava sfottere quel tipo di persone, ahimè frequentissime in Italia, che appena c’è un personaggio di cui si parla ti vengono a raccontare qualcosa che sanno solo loro». Gheddafi sospese le importazioni di veicoli Fiat in Libia e tentò (senza riuscirci) di far mettere al bando la casa torinese da tutto il mondo arabo. Si parlò di un danno da venti miliardi di lire... «Temo che sia vero, però la Fiat non fece una piega. Soltanto anni dopo l’avvocato Agnelli vedendoci ci disse: eh, ci siete costati cari». Gheddafi, stupito forse dell’atteggiamento fermo della Fiat, sottoscrisse l’anno dopo un accordo con la casa torinese. Oggi è il secondo azionista della Juventus.
Per festeggiare l’evento F&L firmarono un’ode sull’ Espresso che cominciava così «Fulgido colonnello, insorpassato pilota /di popoli e automezzi /e capitali, francamente quali/insetti di parabrezza o desertici cani/o polverose feci di cammello davanti /a te ci sentiamo...».