Stefano Agnoli, Corriere della Sera 24/02/2011, 24 febbraio 2011
IL GREGGIO LIBICO? RIMPIAZZABILE. RISCHIO CHOC DA IRAN E ARABIA
-La Libia preoccupa, e molto, ma non spaventa. L’Iran, o addirittura l’Arabia Saudita, terrorizzano. Fino a ieri non era ancora possibile dare la misura di quanto petrolio si sia perso con la sollevazione in corso nel Paese nordafricano. Tripoli esporta ogni giorno circa 1,6 milioni di barili, e mentre secondo i Lloyd’s le petroliere starebbero ancora caricando greggio ai porti libici, per altre fonti l’output si sarebbe invece ridotto già della metà. Se fosse così si tratterebbe di un danno notevole per le compagnie petrolifere che stanno lasciando il Paese (anche Total ha annunciato il ritiro). Ma se anche tutta la produzione libica si fermasse non si potrebbe ancora scommettere sul rischio di un «choc» petrolifero per l’Europa. Non così, ovviamente, se il «contagio» nordafricano si diffondesse anche verso l’Arabia, secondo produttore mondiale dopo la Russia con 9 milioni di barili al giorno, e perno imprescindibile di tutte le strategie dell’Opec.
Con un’analisi del genere concorda sostanzialmente anche Guglielmo Moscato, ex presidente dell’Agip e dell’Eni, grande conoscitore di affari libici e presto anche amministratore della russa Lukoil: «L’Opec — dice — ha di certo già deciso di far fronte all’offerta che verrà a mancare. E poi, anche se ci potranno essere ritardi o inconvenienti, la crisi dei consumi si sente ancora, e in giro per il mondo di petrolio ce n’è quanto se ne vuole» . Certo, bisognerà pagarlo di più, e il fatto che il brent sia arrivato ieri a 111 dollari è lì a testimoniarlo. Aggiunge Massimo Nicolazzi, che prima di occuparsi di gas alla Centrex ha lavorato per l’Eni e per Lukoil nell’area del Caspio: «Per l’Italia il danno non sarebbe la crisi degli approvvigionamenti, ma l’aggravio della sua bolletta petrolifera. I danni riguarderebbero al massimo l’Eni, costretta a sospendere le produzione e a tenere in standby il proprio consistente patrimonio libico» .
Pagare di più per sostituire le forniture che verranno a mancare, dunque. Se per l’immediato questa è la strada obbligata da seguire, il nuovo scenario petrolifero pone altre questioni «strategiche» . Come l’allarme lanciato dall’Iea, l’agenzia internazionale dell’energia, che ritiene che da quando il barile ha superato quota 90 dollari, i Paesi Ocse siano ormai entrati in zona pericolosa. «I prezzi del petrolio sono ormai un serio rischio per la ripresa economica globale» , ha detto l’altro giorno il capoeconomista dell’agenzia, il turco Fatih Birol. Con le quotazioni in impennata le banche centrali potrebbero accarezzare la tentazione di ritoccare i tassi di interesse verso l’alto, tarpando le ali al recupero delle economie. E non sembra uno scenario così improbabile.
Il salto di qualità verso scenari da incubo sarebbe una diffusione dell’infezione verso Riad, o un riacutizzarsi della tensione a Teheran. Ieri, rientrato nel Paese dopo un’assenza di tre mesi per curarsi, l’anziano re saudita Abdullah ha varato un piano da 37 miliardi di dollari tra regalie, sussidi e incentivi. Il tutto per bloccare sul nascere eventuali proteste anti-regime. Per quanto riguarda l’Iran, ricorda l’economista dell’energia Marzio Galeotti, «danneggiamenti o blocchi nell’estrazione di gas e petrolio, o difficoltà di passaggio nel Golfo e nello stretto di Hormuz, mandano brividi lungo la schiena degli operatori economici e finanziari di tutta la filiera energetica» . Di fronte a eventi del genere anche la crisi dell’energia libica sarebbe destinata ad impallidire.
Stefano Agnoli