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 2011  febbraio 23 Mercoledì calendario

Sia lodata la vanità, motore del mondo - Ese la vanità fosse il moto­re virtuoso del mondo? E se tutto ciò che di più nobile realizza l’uomo­­l’arte, la poesia, il pen­siero, la scienza, la poli­tica e perfino la santità - provenisse dalla vanità? Vanità è il piacere di farsi piacere ma è anche il senti­mento del vuoto, dell’inanità del mondo e delle cose

Sia lodata la vanità, motore del mondo - Ese la vanità fosse il moto­re virtuoso del mondo? E se tutto ciò che di più nobile realizza l’uomo­­l’arte, la poesia, il pen­siero, la scienza, la poli­tica e perfino la santità - provenisse dalla vanità? Vanità è il piacere di farsi piacere ma è anche il senti­mento del vuoto, dell’inanità del mondo e delle cose.E se l’uomo pri­vo di vanità si spegnesse, o degra­dasse al rango di vegetale, anzi di minerale, perché le piante forse so­no esse pure vanitose? E magari an­che i rubini, anche gli ori e i diaman­ti, sono a loro modo affetti da vani­tà... Ho sentito l’impulso a difendere la vanità leggendo il libretto a lei de­dicato da Mario Andrea Rigoni, leo­pardiano contemporaneo. Ho va­namente inseguito questo libretto per circa due mesi.L’ho cercato pri­ma che uscisse, l’ho poi vanamen­te richiesto all’editore Nino Ara­gno, dopo mi sarò distratto un atti­mo ed era già esaurito. Infine, dopo averlo vanamente ordinato a più li­brerie, l’ho trovato. Forse è questa vana ricerca che mi ha fatto cresce­re il desiderio e il gusto di leggerlo. Parlo di Vanità (pagg.107, 10 eu­ro), copertina nera come si addice ad un fratello minore di Cioran e a un discendente umorale di Leopar­di. Di Rigoni segnalo pure lo splen­dido saggio, anch’esso nero-pece, Il pensiero di Leopardi , uscito l’an­no scorso dallo stesso Aragno. Un saggio più bello del più recensito Leopardi di Pietro Citati, uscito nel contempo da Rizzoli. È un libretto di pensieri brevi, quello di Rigoni, in verità decre­scente: molto bello il primo capito­lo, bello il secondo, meno bello il terzo, dedicato in prevalenza agli snob, infine annegato in un’ampia antologia di citazioni a cui manca forse l’epigrafe regina in tema di va­nità. Quel: fama? fumus, homo? hu­mus, finis? cinis , che è davvero il ne­crologio di ogni vanità. Ho letto il libretto di Rigoni su uno scoglio dell’Algarve laddove fi­nisce l’Europa, bevuta dall’Atlanti­co. Ero assediato dalle onde, sper­duto sull’orlo dell’Oceano e nota­vo che la felicità più bella è la più vana, perché non si lega a nulla fuo­ri di se stessa, la pienezza di un istante rubato all’eternità. Leggen­dolo lì, coricato sulle rocce, giunge­vo agli antipodi delle conclusioni di Rigoni, coniugando la vanità alla felicità e la vacuità alla essenza no­bile della vita. Nella sua prosa disperata godevo lo spettacolo dell’intelligenza che spalanca l’animo. Uno spettacolo vano ed esaltante, che trovo anche gioioso, tutt’altro che sepolcrale. E poi fa piacere incontrare uno più pessimista di te, ti fa sentire allegro e fiducioso al paragone... Rigoni giudica il mondo un frutto vano della vanità di Dio. Ma ritiene che la vanità sia il desiderio di resi­stere alla morte, di essere e non spa­rire. Non morire! Non morire! fu il sogno supremo che Miguel de Una­muno riconobbe dietro la sua stes­sa scrittura e filosofia. Non morire è il sogno pietoso della vanità; ma la percezione di assurdità del so­gno, lo rende tragico, nobile e vero. Rigoni segue la metafisica del nien­te di padre Emanuele Tesauro, e torna al nichilismo seduttivo di Cio­ran, una disperazione che riesce a sublimarsi in letteratura, in esteti­ca, distillata nella magìa della paro­la. E allora va distinta la vanità rivol­ta al fatuo compiacersi dalla vanità intesa come sentimento del vano ed esercizio operoso dell’inutile. La prima vanità degrada l’uomo a fiore, come nel mito di Narciso; in­ve­ce la seconda specie di vanità ele­va l’uomo perché l’inutile è il blaso­ne dell’anima ben nata. «Coloro che noi chiamiamo inutili sono le vere guide» dice Platone. In Rigoni c’è l’Ecclesiaste con la sua vanitas vanitatum , c’è forse traccia della Gnosi e del suo mon­do creato da un demiurgo funesto. Ma c’è soprattutto Leopardi e la sua strage di illusioni. Splendido quel suo Leopardi brutto, pallido e deforme ma con un sorriso angeli­co ed una passione infantile per la cucina. Della vita di Leopardi colpi­scono varie cose; a me colpì quasi quanto i suoi canti e i suoi pensieri, l’immagine di lui morente che si de­li­zia avidamente in Napoli con i ge­lati. Ho visto nella mente Leopardi ingoiare voracemente una granita di limone prima di spirare; un uo­mo vecchio di 38 autunni, ma con un volto che, stando al calco mor­tuario esposto a Recanati, era somi­gliante a quello di Bobbio novan­tenne. Ma in quel vano e famelico gustarsi la granita si coglieva il nes­so struggente tra un’infanzia ava­riata, sul punto di morire, e un estre­mo attaccamento alla vita e alle sue puerili golosità. Il pensiero della morte aveva dominato la sua vita; ora, finalmente giunto al suo co­spetto, voleva assentarsi, perdersi nel piacere bambino, infimo e asso­luto di una granita. Avrei voluto ve­derlo come gustava l’ultimo gela­to; solo a immaginarlo, avido e mo­­rente, gli occhi si appannano di la­crime. In quel gesto vedo l’espres­sione più acuta della vanità, laddo­ve il frivolo e il tragico si sciolgono tra le scaglie dolci e agre di una li­monata.