FRANCESCO SEMPRINI, La Stampa 23/2/2011, 23 febbraio 2011
“Tutta colpa del clima” Milioni in fuga dal Sud - Entro dieci anni cinquanta milioni di profughi sono destinati a migrare nel Nord del mondo per fuggire alle sciagure ambientali e politiche che metteranno in ginocchio i rispettivi Paesi di provenienza
“Tutta colpa del clima” Milioni in fuga dal Sud - Entro dieci anni cinquanta milioni di profughi sono destinati a migrare nel Nord del mondo per fuggire alle sciagure ambientali e politiche che metteranno in ginocchio i rispettivi Paesi di provenienza. Il quadro dai toni drammatici è emerso nel corso della conferenza annuale dell’American Association for the Advancement of Science, un simposio che raduna i massimi esperti del settore scientifico e sociologico degli Stati Uniti. Il messaggio è chiaro: i cambiamenti climatici causano ogni anno una riduzione nelle produzioni di materie prime e generi alimentari di base, che unita alle difficoltà socio-politiche comuni a diversi Paesi in via di sviluppo o del Terzo mondo, innescano carestie, instabilità e violenze. «Nel 2020 le Nazioni Unite hanno stimato che ci saranno circa cinquanta milioni di rifugiati ambientali», avverte Cristina Tirado, docente dell’Università della California di Los Angeles. Il rapporto causa-effetto è chiaro: «Quando un popolo non riesce a vivere in condizioni sostenibili non ha altra scelta che emigrare», prosegue la Tirado, la quale tiene a precisare come i disequilibri ambientali andando a incidere sulle abitudini alimentari hanno in ultima istanza ricadute sulla stabilità di un popolo. La professoressa usa infatti il termine di «environmental refugees», ovvero quei flussi migratori nati in conseguenza dei cambiamenti climatici e alle ricadute sulla vita socio-politica di una nazione. L’Europa meridionale, ad esempio, da anni assiste a un aumento inesorabile dei flussi migratori provenienti dall’Africa del Nord. I flussi di disperati sono aumentati molto di recente dopo l’ondata di proteste partita dalla Tunisia e giunta nel resto del Nord Africa o in alcune realtà della penisola arabica. Anche in questo caso a dar fuoco alle polveri è stata la riduzione delle disponibilità alimentari. «Quello che abbiamo visto in Tunisia è quello che succederà su larga scala negli anni a venire», spiega Ewen Todd dell’Università del Michigan. «È chiaro che il cambiamento climatico è una delle causa scatenanti di questi movimenti e la crisi alimentare una delle immediate conseguenze - prosegue Todd -. Se a queste si unisce l’incapacità dei governi di far fronte a emergenze di questo tipo o ancor peggio la repressione, allora i risultati sono quelli che abbiamo sotto gli occhi». In sostanza per il professore la dinamica Tunisia-Italia è una micro-rappresentazione di ciò che accadrà su larga scala nei prossimi dieci anni, dove al posto della Tunisia ci sarà il Sud del mondo, e al posto dell’Italia i Paesi sviluppati. «Le polveriere sono senza dubbio le realtà africane, quelle dove i cambiamenti climatici sono più evidenti e gli impatti più tragici», dice Todd secondo cui le rotte dei rifugiati ambientali saranno non solo quelle che attraverseranno il Mediterraneo ma anche quelle transatlantiche. «Gli africani stanno già risalendo la Spagna per dirigersi verso la Germania o in altre regioni più a Nord del Mediterraneo, e questo è solo l’inizio sia in termini di intensità che di ampiezza». «In molti Paesi dell’Africa e del Medio Oriente esiste un cocktail letale di fattori politici, sociali e religiosi, ma spesso la rivolta parte dal basso, dalla povera gente che non riesce a sopravvivere, a mangiare e a mantenere la propria famiglia», prosegue Todd secondo cui tutto questo può essere considerato un «nuovo fenomeno» causato dai cambiamenti climatici. Esiste però una possibilità di inversione del fenomeno o almeno di contenimento: «Se nel lungo periodo si deve lavorare sull’ambizioso obiettivo di ridurre i gas serra, nel medio si deve lavorare sulle produzioni alimentari, creare derrate più resistenti alle avversità atmosferiche, creare una cooperazione con i governi locali per ottimizzare le coltivazioni e la distribuzione delle acque, fermare la desertificazione causata sempre più spesso dall’abbandono dei terreni coltivati».