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 2011  febbraio 23 Mercoledì calendario

DALLA LIBIA NON ARRIVA PIÙ GAS. IL TUBO DELL’ENI RESTA A SECCO

La crisi libica produce già i suoi primi effetti concreti, sul versante più delicato: quello energetico. “Allo stato non ci risultano sospensioni di forniture di gas”, assicurava ieri all’ora di pranzo il ministro degli Esteri Franco Frattini. Ma nel pomeriggio un comunicato stampa ufficiale dell’Eni ha chiarito come stavano davvero le cose. Il flusso di gas da Tripoli si era interrotto già dalla sera di lunedì, “in seguito alla temporanea sospensione di alcune attività di produzione di gas naturale in Libia”. I rubinetti del gasdotto Greenstream sono chiusi. E visto che dal quel tubo passano 9 miliardi di metri cubi di gas su 9,2 che l’Italia importa ogni anno dalla Libia, questo significa il blocco totale delle importazioni. La ragione dello stop improvviso, stando alle ricostruzioni che circolavano ieri, è che i libici che lavorano nel sito di Mellitah, da dove partono i tubi diretti a Gela, si sarebbero uniti alla rivolta lasciando senza personale l’impianto sui cui l’Eni investe dal 2003 assieme al governo libico.
CHE SUCCEDE ADESSO?
Niente, secondo l’Eni, visto che la società “conferma di essere in grado di far fronte alla domanda di gas da parte dei propri clienti”. In questi momenti, però, le cose cambiano molto in fretta. Così in fretta che ancora lunedì, nei suoi comunicati sempre più frequente, il gruppo guidato da Paolo Scaroni affermava con la stessa sicurezza che “in questo momento Eni non ravvisa alcun problema agli impianti e alle strutture operative. Le attività proseguono nella norma senza conseguenze sulla produzione”. Se il blocco dovesse prolungarsi è però prevedibile che il gruppo petrolifero sarebbe costretto ad approvvigionarsi altrove. E non a caso già lunedì i vertici della russa Gazprom già grande fornitore dell’Italia, vantavano l’efficienza e la stabilità delle loro forniture rispetto a quelle provenienti dal Nordafrica. Oltre alla Libia, infatti, c’è anche l’Algeria tra i tradizionali partner dell’Eni.
La Borsa, come ovvio, non reagisce bene a queste notizie che contribuiscono all’incertezza sulle prospettive future dell’Eni in un Paese dove opera da 50 anni e da 40 in un rapporto d’acciaio (più solido di quello di altri concorrenti) con il regime di Gheddafi. E infatti i titoli del gruppo petrolifero, che già avevano perso più del 5 per cento nella seduta di lunedì anche ieri hanno chiuso la giornata in calo dello 0,86 per cento. Come dire che il valore dell’Eni in Borsa è diminuito di oltre 4 miliardi di euro in due giorni. Stesso destino anche per le altre aziende quotate esposte verso la Libia. É proseguito anche ieri quindi il ribasso di Impregilo, la grande impresa di costruzioni che nel portafoglio ordini conta su appalti per oltre 700 milioni per la realizzazione di infrastrutture e altri lavori pubblici, tra cui tre università, nel Paese di Gheddafi. “Non abbiamo problemi di portafoglio”, ha dichiarato ieri il presidente di Impregilo, Massimo Ponzellini, “perchè - ha spiegato - gli anticipi incassati coprono le spese fin qui fatte”. Il titolo ha comunque perso oltre il 2 per cento in Borsa che va ad aggiungersi al 6 per cento di lunedì.
CONTAVA MOLTO sulla Libia anche l’amministratopre delegato di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini che si era assicurato commesse per oltre un miliardo da Tripoli. Oltre a apparecchiature per la sorveglianza elettronica e materiale ferroviario targato Ansaldo, il gruppo gestito da Guarguaglini, che ha lo Stato come maggiore azionista, aveva venduto ai libici 16 elicotteri Agusta Westland, ufficialmente per usi civili. Fin-meccanica ieri in Borsa ha chiuso in ribasso dell’1,35 per cento. Gli investitori sanno bene che al momento ogni possibile nuovo affare del gruppo in Libia appare quantomeno in forse. Degli ottimi rapporti del passato resta invece la scomoda eredità di una partecipazione del 2 per cento (valore circa 100 milioni di euro) nel capitale Finmeccanica rilevata solo pochi mesi dalla Lia (Lybian investment authority) il fondo sovrano del governo di Tripoli.
In affanno anche Unicredit, dove il governo libico è addirittura il principale azionista con una partecipazione complessiva del 7,5 per cento in portafoglio a fondi sovrani e alla banca centrale. Ieri la banca milanese (in calo in Borsa di oltre il 7 per cento in due giorni) ha riunito il consiglio di amministrazione a cui non ha partecipato il vicepresidente Omar Bengdara, che è anche governatore della Bank of Lybia. “Non riusciamo a contattarlo e siamo preoccupati”, ha detto ieri sera ai giornalisti il presidente di Unicredit Dieter Rampl. Intanto però i vertici della banca sembrano aver risolto all’improvviso la questione che per mesi e mesi è rimasta al centro di disquisizioni legali. Ebbene Unicredit è pronto a congelare al 5 per cento, come prevede lo statuto, i diritti di voto sulla quota. Fino a ieri si discuteva se invece la partecipazione non era da considerare suddivisa tra i tre soggetti formalmente autonomi che la detengono. Invece no, dicono adesso all’Unicredit. I libici si fermano al 5 per cento. Tanto Bengdara intanto ha altro a cui pensare.