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 2011  febbraio 23 Mercoledì calendario

DABBAWALA, PER VOCE ARANCIO

Dabbawala = dal marathi dabba, scatola per il pranzo, e wala, portatore. Il dabba è un contenitore d’acciaio composto da tre scomparti separati che, incastrati uno sull’altro e tenuti insieme da ganci metallici, formano un cilindro alto circa venti centimetri.
A Mumbai, ogni giorno, 5mila dabbawala consegnano 200mila pasti cucinati in casa.
«I dabbawala sono trasportatori di cibo. Ritirano da casa del cliente il dabba con il cibo cucinato dalle donne della famiglia e lo consegnano sul luogo di lavoro del cliente stesso. Li si riconosce dalla casacca bianca e, soprattutto, dalla Topi, il cappello tipico dei territori rurali. Hanno un’età che va dai 18 anni ai 65-68 anni e sono quasi tutti uomini che provengono dai villaggi vicino a Mumbai. Le donne sono pochissime, solamente cinque», racconta a VoceArancio Sara Roncaglia, antropologa economica e autrice di Nutrire la città. I Dabbawala di Mumbai nella diversità delle culture alimentari urbane (Ed. Bruno Mondadori, euro 20).
In India esiste una sola associazione di dabbawala, la Nutan Mumbai Tiffin Box Suppliers Charity Trust. Il suo comitato esecutivo, eletto ogni cinque anni, è formato da presidente, vice-presidente, segretario generale, tesoriere e nove direttori. Poi «ci sono diversi gruppi di dabbawala, gestiti ciascuno da un organizzatore che si chiama mukadam (in totale circa 800, ndr), che fa capo a un direttore di zona ed è a sua volta un dabbawala. È lui a decidere i ruoli e a gestire i rapporti con la clientela. Di solito si tratta di una persona anziana che ha ricevuto l’incarico per meriti o perché ha acquistato una linea». Cos’è una linea? «É il tragitto che compie il dabbawala per trasportare i dabba da casa all’ufficio. Quando un mukadam è stanco e vuole tornare al villaggio, vende all’asta la sua linea a qualcun altro. È un po’ come da noi, quando un commerciante vende l’attività e va in pensione». Un mukadam guadagna più di un dabbawalla? «Sì. Anche se la loro struttura gerarchica è al tempo stesso orizzontale. Nessuno è assunto. Tutti sono soci del gruppo e le persone guadagnano perché trasportano dabba, non perché hanno un ruolo organizzativo. È una collaborazione competitiva. Più dabba si portano, più si guadagna», ci spiega Sara Roncaglia.
La giornata di un dabbawala. Tutte le mattine, tranne la domenica, alle 8.00, un dabbawala ritira i dabba a casa dei clienti di una certa zona. Li carica sulla bicicletta o sul carretto e li porta alla stazione ferroviaria più vicina. Lì, ad attenderlo c’è un altro dabbawalla, parte sempre del suo gruppo, che divide i contenitori a seconda della destinazione e in base al codice riportato sul coperchio che indica la zona da cui proviene il pasto, la stazione ferroviaria più vicina, la stazione di destinazione, l’edificio, il piano e l’ufficio. I dabba che devono arrivare in una stessa zona vengono messi su una portantina di legno e caricati velocemente (in circa 30’’) sul treno, in un compartimento loro riservato. Se il percorso è lineare, da una stazione all’altra, all’arrivo un dabbawala del gruppo preleva i dabba dal treno e li porta nel punto di smistamento per la consegna finale. Se, invece, il percorso non è lineare e il dabba deve cambiare stazione, i contenitori vengono trasferiti sul treno che li porterà alla destinazione finale. Alle 12.30, il dabba è in ufficio. Dopo pranzo, comincia il percorso inverso. Tra le 13,15 e le 14,00, i dabbawala tornano a ritirare i contenitori vuoti ed entro massimo le 18.00 sono riconsegnati a casa del cliente.
Ogni pasto viaggia in media per 25 km sui mezzi pubblici e per 10 km a piedi. Il dabbawala che gira senza berretto, si assenta, arriva in ritardo senza un valido motivo oppure viene scoperto a bere in servizio, può essere multato.
Un dabbawala guadagna dalle 3.500 alle 6.000 rupie (dai 60 ai 100 euro) al mese.
Un dabba pesa in media due chili. Un dabbawala di solito carica sulla testa una portantina di legno che ne contiene una quarantina, per un totale di 80 chili.
Il servizio dei dabbawala è nato nel 1890, quando l’India era ancora sotto il dominio inglese e i rappresentanti dell’Impero preferivano mangiare il cibo cucinato in casa, invece di quello locale. A dare inizio al servizio di consegna dei pasti fu Mahadeo Havaji Bachche, un giovane di lingua marathi proveniente dal distretto di Pune.
«Prima il problema era che non c’era la bicicletta, c’era una portantina di legno, su questa si mettevano tutti i tiffin (pasti, ndr), poi si appoggiava sulla testa e si andava a piedi. Poi è arrivata la bicicletta e poi si è aggiunto il servizio del treno e quindi altre facilitazioni. Il lavoro è diventato più semplice. Poi con il cellulare […] è migliorato […]» (Mukadam della Nutan Mumbai Tiffin Box Suppliers Charity Trust. Dal libro Nutrire la città).
Il servizio non conosce interruzione, nemmeno durante il periodo dei monsoni. Se si esclude la possibilità di prenotare il servizio via sms o sul sito mydabbawala.com, la loro gestione non prevede alcun tipo di tecnologia.
I dabbawala, in 120 anni di attività, non hanno mai scioperato una volta.
Il costo mensile del servizio va dalle 250 alle 500 rupie (8 euro) a seconda della zona. I clienti «sono prevalentemente uomini. Fanno parte della classe media e lavorano nel terziario avanzato, dai centri commerciali alle banche, agli uffici. E soprattutto ci sono tanti bambini, ai quali le mamme mandano il cibo e la bottiglietta d’acqua», prosegue Sara Roncaglia. Perdoni la domanda banale, ma perché il pranzo non se lo portano da casa la mattina quando escono? «Questa è una domanda che fanno tutti (ride, ndr). Quando ho chiesto ai clienti perché non se lo portassero da casa, mi hanno guardato come se fossi una marziana, come a dirmi “ma perché dovrei portarmelo da casa, quando c’è il dabbawala?”». Noi diremmo “perché portarlo da casa se sotto l’ufficio c’è un bar?”… «Per loro non è così. Mangiare qualcosa cucinato a casa è importante perché permette di rispettare le prescrizioni castali, religiose, etniche. Poi, è più salutare». Perché pagare un servizio che si potrebbe evitare? «In India c’è una cultura del servizio diversa da quella che abbiamo noi. Alla base di tutto c’è un’etica del lavoro che, secondo la Varkari Sampradaya (la fede dei dabbawalla, ndr), vede nel servizio verso gli altri il servizio verso Dio». A che casta appartengono? «Si definiscono Kshatriya, ovvero guerrieri, perché fanno un lavoro dove occorre molta forza fisica. Molti si rifanno a un’icona della città, Shivaji, un condottiero maratha vissuto tra il 1627 e il 1680 d.C. Dicono di appartenere a una casta elevata, la seconda dopo i brahmani, ma di fatto hanno un margine di guadagno molto basso rispetto agli altri. Di sicuro sono orgogliosi di se stessi».
I dabbawala considerano il lavoro come fare la puja (atto di adorazione, ndr): «Io sono molto devoto, ho molta fede in Dio. Dare il cibo è una cosa molto importante. Il fatto è che se non porto il cibo in orario, se il dabba non arriva all’ora di pranzo, il cliente avrà fame. Il nostro lavoro è poi consegnare il dabba, quindi se arriva all’ora di pranzo, il cliente sarà soddisfatto, riceve il cibo ed è soddisfatto. Il lavoro è questo, che si fa arrivare il cibo agli altri, quindi è un lavoro buono» (il direttore della Nutan Mumbai Tiffin Box Suppliers charity Trust. Dal libro Nutrire la città).
La rivista Forbes ha assegnato ai dabbawala la certificazione “Sei Sigma”, il sistema che giudica la qualità di un servizio. La stessa data a multinazionali come Motorola, Honeywell, General Electic ecc.
L’organizzazione dei dabbawala raggiunge il 99,999999% di efficienza nella consegna del pasto giusto alla persona giusta. In pratica, un errore ogni sei milioni di consegne. Come è possibile che non confondano o perdano un pranzo? Roncaglia: «È una cosa eccezionale. Il sistema viene gestito attraverso una serie di simboli scritti sopra i dabba. La maggior parte dei dabbawala è analfabeta, ma ha imparato a decodificare questi segni per capire dove portare il pranzo, a che piano e in che ufficio. Senza errori. C’è anche una consuetudine nella gestione. Molti clienti sono gli stessi da anni. I dabbawalla sono consapevoli che la perdita di un dabba significa la perdita di un cliente. Quando si lavora a percentuale, perdere anche un singolo dabba può significare non riuscire ad arrivare a fine mese». Lei è stata per oltre un anno a contatto con la loro realtà, cosa l’ha colpita di più? «Sicuramente vedere come delle persone analfabete, in condizioni economiche difficili e in una città dura e faticosa come Mumbai, siano riuscite a mantenere nel tempo un lavoro dignitoso, senza perdere di vista i valori tradizionali della loro gente».
Società come Tata, Coca-Cola e Unilever hanno mandato i loro manager a studiare la logistica dei dabbawala. Persino la Business School dell’Università di Harvard ne ha fatto un case-study. «La gestione dei dabbawala è semplice, ma al tempo stesso complessa, con un margine di errore bassissimo», continua Sara Roncaglia. «Una delle cose che quest’associazione ci insegna è l’importanza dei rapporti di compaesanità. Queste persone arrivano dagli stessi villaggi, spesso sono parenti, parlano la stessa lingua, il marathi, hanno una comunicazione verbale comune e una proscenica molto simile. Bastano loro poche parole per sapere come sfruttare al meglio le situazioni. Si avvalgono di una gestione culturale delle relazioni che va oltre il lavoro e fa capo al villaggio, a un modo di intendere la vita».
«[…] Come ci saranno sempre persone che mangiano, così ci sarà sempre chi porta da mangiare» (Gargaram Talekar, Segretario della Nutan Mumbai Tiffin Box Suppliers Charity Trust. Dal libro, Nutrire la città).
“A Day with Dabbawala” per conoscere meglio questi “portatori di cibo”. Basta compilare il modulo sul sito dell’organizzazione (www.mydabbawala.com) e mettersi d’accordo sul giorno. Dalle otto del mattino si può seguire il dabbawala a casa del cliente, viaggiare sul treno con lui, consegnare il pranzo in ufficio, pranzare con i dabbawala e poi ripartire per il ritiro. Anche il multimiliardario Richards Branson l’ha fatto.