Diego Gabutti, ItaliaOggi 23/2/2011, 23 febbraio 2011
I DIMENTICATI DEI CAMPI DI STERMINIO RUSSI
Non sembra di leggere un libro di storia ma un’ucronia, le cronache d’un universo parallelo: I dimenticati. Storia degli americani che credettero in Stalin di Tim Tzouliadis (Longanesi, pp. 514, 30,00) somiglia più alla Svastica sul sole di Philip K. Dick, dove l’autore di Blade Runner descrive un mondo in cui i nazisti vincono la seconda guerra mondiale e le normali storie della rivoluzione russa, dove a prendere il potere a San Pietroburgo e Mosca non sono i liberali, che hanno rovesciato lo zarismo a febbraio, e neppure i soviet, ma i bolscevichi, che in ottobre liquidano la democrazia a fucilate.
Operai e tecnici comunisti che raggiungono il paradiso dei lavoratori assieme alle loro famiglie per contribuire alla realizzazione del piano quinquennale; lavoratori disoccupati e contadini espropriati dalle banche (i personaggi di Furore, il grande romanzo di John Steinbeck sulla Depressione) che non cercano lavoro in California ma nelle remote steppe sovietiche; operai e ingegneri della Ford che lasciano Detroit per gli stabilimenti Ford di Nizhny Novgorod; più tardi prigionieri di guerra americani (stiamo parlando dell’ultima guerra mondiale, quando Usa e Urss erano alleati) trasferiti un segreto dai campi tedeschi direttamente nei campi sovietici; più tardi ancora soldati americani catturati in Corea oppure rapiti qua e là in Asia e in Europa per strappar loro informazioni militari: quella degli yankees in Unione Sovietica è una grande epopea, che Tzouliadis fa iniziare a Mosca, nel 1934, «con la fotografia d’una squadra di baseball. L’immagine è in bianco e nero. Due file di giovanotti sono in posa davanti all’obiettivo: in una sono in piedi, nell’altra accovacciati con le braccia sulle spalle dei compagni accanto. Hanno tutti all’incirca vent’anni, sprizzano salute e hanno l’aria d’essere ottimi amici. Vengono da comuni famiglie operaie d’ogni angolo dell’America. Fermi in attesa sotto il sole, sembrano normalissimi giocatori d’una squadra di baseball, salvo forse per le scritte in russo sulle loro maglie». A tutti è stato ritirato il passaporto e presto saranno tutti dichiarati cittadini sovietici d’autorità, senza chiedere loro il permesso. I dimenticati segue alcuni di questi giocatori di baseball (nonché i loro figli e nipoti) fin dentro l’inferno: le miniere d’oro della Kolyma che proprio un ingegnere americano aveva segnalato per primo ai sovietici, l’indifferenza e la pavidità delle autorità americane quando gli esuli si rivolgeranno all’ambasciata supplicando di poter tornare a casa un attimo prima di finire a capofitto nelle fiamme infernali del Gulag e poi il freddo, la fame, le torture, l’odio, gli stupri, la morte, la pazzia. E per alcuni, infine, trenta e persino quarant’anni dopo, il ritorno a casa, miracolosamente scampati, dove il racconto della loro tragedia non interesserà però quasi nessuno: Roosevelt e le cortesie della sua amministrazione, pesantemente infiltrata dai comunisti, al Padre dei popoli è un argomento poco gradito in America. E poi la maggior parte di costoro, quando lasciarono «Detroit, Boston, New York, San Francisco, il Midwest» per l’Unione Sovietica di Stalin e Beria, era comunista convinto, vero o no? Causa del proprio mal, piangano se stessi.
Sembra una storia inventata da qualche sceneggiatore hollywoodiano. Invece I dimenticati è la storia disgraziatamente reale degli americani che andarono incontro al loro destino nei campi di sterminio sovietici. Un libro esemplare, oltre che un libro a suo modo fantastico, come le ucronie di cui dicevamo all’inizio. Straordinarie, poi, le pagine finali, quando i rari superstiti rientrano in America e si guardano intorno stupefatti, come i piloti rapiti dagli alieni che alla fine d’Incontri ravvicinati del terzo tipo scendono dalla passerella del grande Ufo sospeso come un’immane lampada cinese nella bocca del vulcano spento.