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 2011  febbraio 23 Mercoledì calendario

UNA PISTA PER L’OMICIDIO VERBANO

Forse gli esecutori dell’omicidio di Valerio Verbano, ucciso a Roma dai fascisti nel 1980, avranno finalmente un volto e un nome (sarebbero stati riconosciuti da alcuni testimoni su foto segnaletiche dell’epoca). Infatti la Procura di Roma – nelle persone del Procuratore aggiunto Pietro Saviotti e del Pubblico ministero Erminio Amelio – ha riaperto le indagini su questa tragica pagina di criminalità politica, iscrivendo nel registro degli indagati due persone (i due, secondo le prime indiscrezioni investigative, avrebbero ucciso il giovane Verbano per accreditarsi con un’azione clamorosa agli occhi dei capi dei Nar, Francesca Mambro e Giusva Fioravanti).
E quindi, dopo tante angosce e verità negate, forse per la signora Carla Zappelli, madre di Valerio, oggi ottantasettenne, è arrivato il momento del sollievo.

na piccola “pacificazione” e un piccolo lenimento dopo anni di dolore, di feroce guerra ideologica, e di troppo sangue giovane versato sull’altare del dio crudele dell’utopia.
Chi era Valerio Verbano, e in che modo fu ucciso? Quella di Valerio – nato nel 1961 – è una storia molto romana, interamente avvenuta e consumata in quel triangolo della Capitale (quartieri Trieste, Talenti e Monte Sacro) in cui lo scontro tra comunisti e fascisti era più feroce, ai limiti d’una quotidiana guerriglia urbana “casa per casa”. Siamo tra le fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, e a Roma le sigle che si combattono a suon di attentati, risse, cortei, bombe, incendi, comunicati, ciclostili e, purtroppo, omicidi, sono davvero molte, tanto che gli inquirenti e gli stessi storici del fenomeno hanno sempre avuto difficoltà a separarle tra di loro, e a delinearne i reali confini e le differenze.
Valerio Verbano, nel 1980, ha appena diciannove anni e, come scrive Valerio Lazzaretti nel suo poderoso saggio-inchiesta Valerio Verbano. Ucciso da chi, come, perché (Odradek, 461 pagine, 25,00 euro), è un ragazzo della sinistra extraparlamentare che alle riunioni di Autonomia proletaria si presenta con «giaccone blu scuro da marinaio, sciarpa scozzese intorno al collo e cappelletto celeste». Verbano si è diplomato al liceo scientifico “Archimede” – che in precedenza aveva scelto perché era “di sinistra” – e lì ha maturato la sua coscienza marxista e la sua intransigente posizione extraparlamentare. Verbano vive a via Monte Bianco 114 (zona Monte Sacro), e proviene da una famiglia della piccola borghesia romana (il padre, Sardo Verbano, comunista anche lui, è un impiegato della vecchia Ura casa, all’epoca alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni).
Il ventidue febbraio del 1980, alle ore 12.30, mentre Valerio è fuori casa, qualcuno suona alla porta dell’abitazione della famiglia Verbano (sia la signora Carla Zappelli che il marito Sardo Verbano sono a casa, quel giorno). La signora Carla chiede chi siano, e loro rispondono “siamo amici di Valerio”. A quel punto lei apre e, come racconta Lazzaretti, «Carla si trova di fronte tre figuri. Due hanno il volto coperto. Il terzo si sta calando un passamontagna di colore celeste sul volto. Per un istante, che ricorderà per sempre, Carla riesce a vederlo in viso: è giovane, alto, biondo con i capelli lunghi e riccioluti».
I tre aggressori imbavagliano i genitori di Valerio, si mettono a frugare nei cassetti della sua stanza, e ne attendono il rientro. Alla domanda della signora Carla, che a fatica riesce a parlare a causa del bavaglio «Che cosa volete fare?», uno dei tre ragazzi risponde: «Dobbiamo fare delle domande a Valerio, chiedergli dei nomi. Se ci risponderà in modo giusto, non succederà nulla. Se no, peggio per lui».
Un’ora dopo, alle ore 13.40, Valerio rientra a casa, e inizia immediatamente a scontrarsi fisicamente con i tre balordi. Poi si sente gridare «Aiuto, mamma, aiuto», e subito dopo parte un colpo di pistola. Tutto dura non più di tre minuti (i genitori di Valerio non possono vedere, ma solo sentire) e, alla fine dell’esecuzione, uno dei tre giustizieri dice semplicemente: «Andiamo, è fatta!».
La signora Carla riesce a trascinarsi carponi fino all’ingresso, dove il figlio è agonizzante, e richiama l’attenzione dei vicini, che immediatamente chiamano il pronto soccorso ma, come scrive Lazzaretti, «alle 14.05 Valerio è morto. I medici del pronto soccorso, dopo una breve visita, non possono fare altro che constatarne il decesso. Ad averne cagionato la morte è stato un proiettile penetrato nella parte bassa della schiena, che ha provocato una fatale emorragia».
A quel punto iniziano non solo i cortei spontanei e le richieste di vendetta dei suoi compagni, ma anche tutta una serie di rivendicazioni e di smentite intorno al suo feroce assassinio. Qualcuno telefona all’Ansa a nome dei Gruppi Proletari Organizzati Armati, ma in seguito gli stessi Gruppi smentiranno la telefonata (è uno dei tanti depistaggi). Poi chiamano i Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari, quindi la destra eversiva), e rivendicano l’assassinio, fornendo particolari che solo gli esecutori potevano sapere («Abbiamo lasciato nell’appartamento di Verbano una pistola 7,65»). A uccidere Valerio sono stati i fascisti, dunque. Sì, ma chi?
Il 23 febbraio del 1980 il giornalista di Paese sera Danilo Maestosi scrive un articolo nel quale si parla apertamente di una “lista” che a suo tempo fu trovata e sequestrata dalla Digos a casa di Valerio Verbano all’indomani del suo arresto (venti aprile del 1979): «Nella sua casa la polizia trovò una lista contenente nomi e indirizzi di giovani neofascisti della zona. La notizia, riportata con rilievo dai giornali può aver contribuito a farlo individuare come vittima designata».
Valerio Verbano era stato arrestato perché accusato di aver confezionato alcune bombe artigianali (all’epoca circolava Il sangue dei leoni, il manuale di guerriglia urbana pubblicato dalla Feltrinelli) e, tra le motivazioni dell’arresto, il Tribunale di Roma scriveva: «Verbano è il più pericoloso del gruppo degli imputati, a causa della sua estrema politicizzazione».
Viene quindi condannato a due anni e otto mesi di reclusione, che deve scontare nel carcere di Regina Coeli (uscirà il 22 novembre del 1979) e lì, ricorda una fonte confidenziale, «il Verbano sarebbe stato ritenuto responsabile del ”pestaggio” di un elemento di destra» (altro depistaggio?). Un «compagno», invece, lo ricorda così: «Era abbastanza vulcanico, anche molto determinato, Valerio mi ha fatto sempre un’ottima impressione. Aveva questa fissa dell’archivio, i fascisti. Io non condividevo tutte queste sue preoccupazioni per il pericolo fascista, ma il ricordo che ho è di una bella persona aperta, anche molto volitiva. Per avere quasi diciannove anni era effettivamente molto determinato».
Il “Dossier Verbano” (la famosa lista) era «la somma di una decina di quaderni e agende varie, un pacco di volantini, foto, ritagli di giornali annotati. Ben diciotto classificatori pieni di documenti e altri sei pieni di foto». I nomi degli assassini di Verbano sono ancora nascosti in questi quaderni?
Gli inquirenti, nonostante i tanti indizi, brancolano nel buio, finché Walter Sordi, il primo “pentito” della destra eversiva, dichiara qualcosa, ma la sua pista non porta da nessuna parte; poi tocca addirittura ad Angelo Izzo, “mostro del Circeo”, aggiungere qualche dettaglio sulla vicenda e, infine, a Stefano Soderini; ma non si arriva a nessuna verità giudiziaria, tanto che nel 1989 vengono assolti tutti gli indagati: Claudio Bracci, Massimo Carminati, Roberto Nistri e Egidio Giuliani. Il diciotto novembre del 1988 il padre di Valerio muore all’età di 67 anni, mentre appena un anno dopo viene finanche ordinata la distruzione dei corpi di reato.
Fino alla notizia della riapertura del caso, che tutti sperano possa portare alla verità definitiva.