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 2011  febbraio 22 Martedì calendario

AFGHANISTAN, L’UNICA DONNA MAGISTRATO: «LA MIA GUERRA CONTRO LA CORRUZIONE»

HERAT I talebani, ma anche esponenti della galassia criminale, la vogliono morta. Più di un collega gradirebbe che lasciasse libero lo spazio professionale che occupa in nome e per conto della legalità. Considerato il contesto non è facile, per molti, perdonarle il “peccato originale”: è donna in carriera con la possibilità di decidere delle vite degli altri. Ma piuttosto che arrendersi la signora Maria Bashir si è attestata in trincea. Circondata da guardie del corpo, negatele dal governo e messe a disposizione da Washington, procede spedita nell’applicare la legge. Unica tra le donne magistrato del’Afghanistan, ricopre ad appena quaranta anni il poco comodo ruolo di procuratore generale. Ad Herat la seconda, ma forse anche la più ricca, città del Paese attraversata da traffici non sempre legali. «Combattere la cultura della corruzione – dice - è il nostro principale problema». Non è una gran vita la sua. Il marito, ricco imprenditore, deve temere vendette trasversali. I tre figli sono costretti a vivere in una località segreta. Ancora incombe, dopo un attentato fallito, l’ordine di ucciderla partito da una shura integralista. «Posso dire che per il Paese e per me esiste un problema di sicurezza», ammette sorridendo, seduta alla scrivania del suo ufficio. Ma più che le minacce sembrano infastidirla i veleni che il palazzo di Giustizia di Herat – come altri - sprigiona. Ne prende atto con una punta di amarezza che appena traspare dal suo viso ben truccato incorniciato dallo scialle nero: «Ogni giorno ricevo minacce dirette o indirette da parte di altri magistrati. Fanno di tutto per screditarmi. Sostengono che voglio introdurre il divorzio e eliminare la sharia. In realtà io mi batto soltanto per il rispetto dei diritti delle donne».
Anche nella condizione di clandestinità cui l’hanno costretta i talebani?
«Quando sono andati al potere ho dovuto abbandonare il mio lavoro presso la procura. Trovai l’ufficio chiuso. Mi imposero il burqa ordinandomi di starmene a casa. Ma organizzai corsi segreti di insegnamento per le ragazze del quartiere. Volevo che, in attesa di tempi migliori, non abbandonassero per sempre gli studi».
Gli ambienti conservatori la ritengono una minaccia?
«In cinque anni ho mandato sotto processo tremila persone, ma ho anche dovuto ordinare o cinque arresti nell’ambito del mio ufficio. In Afghanistan ogni struttura statale è inquinata. E’ capitato di dover incriminare funzionari ed anche un ex sindaco, ma le metastasi del sistema sono anche conseguenza di trenta anni di guerra. Il male endemico è la corruzione sviluppatasi su due livelli. Il primo riguarda esponenti della classe politica che molto hanno allungato le mani. L’altro ha diverse motivazioni: il ricorso alle mance e la richiesta di tangenti deriva dalla modestia degli stipendi. Alti funzionari dello Stato che a stento raggiungono i duecento dollari al mese possono cadere in tentazione».
Cosa suggerirebbe al governo centrale?
«Di eliminare il nepotismo e la selezione su base etnica per l’assegnazione degli incarichi. Nonché di definire salari decorosi. L’Afghanistan ha bisogno di funzionari e politici competenti. Ed anche animati da patriottismo».
Non teme di essere destinata alla sconfitta?
«Per niente. Non riusciranno a travolgermi. Io lavoro per una società che consenta di vivere e lavorare liberamente. Agli uomini come alle donne».