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 2011  febbraio 19 Sabato calendario

AL CINEMA COL CRITICO PIÙ CRUDELE «JOHN FORD LO METTO NEL CESSO»


Quandosipensaaunlibrodi interviste sul cinema non si può non pensare al più bello di tutti, quello in cui Truffaut interroga Hitchcock. Ci ho pensato ancora leggendo Carmelo Bene. Contro il cinema, volume a cura di Emiliano Morreale appena pubblicato da Minimum Fax e che raccoglie molte interviste in cui il grande artista parla (malissimo) di cinema. Bene e Hitchcock, pur essendo figure non sovrapponibili, avevano una cosa in comune: sono stati più amati in Francia che nelle nazioni in cui lavoravano.
Carmelo Pompilio Realino Antonio era nato nel 1937 a Campi Salentina. «Io sono nato in un paese dove passano le capre, in un villaggio dove si parla greco, dove non esiste la lingua italiana», ricorda in una delle interviste Bene, aggiungendo di non amare quel paese né la Puglia. Ce n’è da far inorridire più di uno degli odierni fan di un Salento manierato. Ma in vita sua, una vita conclusa troppo presto nel 2002, Bene ha avuto più di una occasione per far inorridire i contemporanei. Da quando per evitare il servizio militare si finse omosessuale a tutte le volte in cui a Roma, attore in cerca di fortuna, era perennemente ubriaco e quindi ospite delle guardine. Siamo nel 1958 e ai tempi «Bastava girare con la barba non rasa di un giorno» per essere fermato e arrestato. Era una sfida
delle convenzioni e più che al potere era una sfida al concetto di patria.
Bene si infuria con i giornalisti dei celebri Cahiers du Cinéma che lo intervistano spesso quando quelli gli parlano della sua italianità. «Culturalmente non sono italiano, ma arabo», diceva Bene. E non voleva mai spiegare questa sua affermazione, ma precisava che «gli italiani, a differenza dei francesi, non fanno riferimenti alla letteratura, ma al melodramma. Per questo gli italiani cantano e non pensano». E si spingeva oltre: «L’Italia non esiste. I tedeschi che da Goethe in poi sono venuti a fare il tour in Italia hanno fatto viaggi sprecati».
I miti italiani
Dopo l’esibizione progaribaldina di Benigni a Sanremo queste parole possono essere un balsamo. «I miti italiani non mi riguardano. La Vergine e i Vangeli li lascio a Pasolini». Sono parole del 1968, quando Pasolini era già un intoccabile.
Oltre alle innumerevoli creazioni teatrali per cui è più famoso, Carmelo tra il 1968 e il 1973 ha anche girato da regista cinque lungometraggi: Nostra Signora dei Turchi, Capricci, Don Giovanni, Salomè e Un Amleto di meno. Difficilissimo vederli oggi come lo era ai tempi. Veri insuccessi commerciali, limitati a qualche festival come Cannes o Venezia o al circuito dei cinema
d’essai. Nessuno è mai arrivato nelle sale di seconda visione che ai tempi pullulavano in periferia. Bene però non si crogiolava nella lamentela contro i distributori. Anzi dei suoi film diceva che «il pubblico non li vuole vedere nemmeno in centro».
Non avendoli visti possiamo solo immaginare cosa fossero: rielaborazioni dei temi di partenza, sperimentazioni. Quando rappresentò Nostra signora dei turchi a teatro mise una lastra di vetro a fare da sipario, così che il pubblico non sentisse nulla, ma vedesse solo le azioni. Di sicuro Bene non usava metodi tradizionali nemmeno al cinema. Odiava il montaggio, preferiva girare film già “montati in macchina”. Ma soprattutto Bene odiava il cinema. «Non vado mai al cinema, mai andato, non ci andrò mai».
I critici volevano parlare con lui dei suoi film, ma lui si rifiutava. Gli domandavano se le sue fossero opere difficili e si sentivano dire: «Bisogna fare un film che non sia stupido e non fare un cinema intelligente». Una volta un critico francese osò domandargli cosa pensasse del cinema italiano. La risposta fu micidiale: «Ci sono due parole che lei non dovrebbe pronunciare insieme: la parola cinema e la parola italiano».
Non era tenero nemmeno con i grandi maestri stranieri. «John Ford io lo metto al cesso. Voi mettelo su un altare, per me è lo stes-
so». Oppure: «Ejzenstein l’ho visto quasi tutto, e così quel coglione di Buñuel, e anche quel guittetto di Chaplin, ributtante. Sono tutti fenomeni meschini e piccolo borghesi». Tenete sempre presente che si era in pieno regime sessantottino. Simili opinioni erano un passaporto per l’esilio. Ma Bene non aveva paura di esprimersi. A chi gli domandava se i suoi film fossero politici o impegnati politicamente replicava: «Per me non ha senso parlare di cinema. Figuriamoci di politica!». Di più: «Sia chiaro: tutto ciò che è rosso, ma non è potabile, solido e non liquido, non mi piace!». E non basta: «L’inglese è una lingua commerciale e io non ho niente contro il commercio».
Incompreso
Poi però, come tutti gli artisti, anche Carmelo soffriva quando le sue opere non erano comprese. Nel suo disordinato bilocale sull’Aventino, tra whisky e stecche di sigarette, Bene conservava con ordine negli album le recensioni dei suoi film e soffriva quando Gianluigi Rondi, ai tempi guru incontestabile della critica cinematografica, definiva i suoi lavori: «Cinema demenziale, informale, disordinato e confuso, in quanto difficile da catalogarsi». Bene, che si interrogava da sempre sulle categorie, inveiva contro Rondi: «Ma lo ha mai letto Kant?». Forse no. Forse Rondi prima di dormire faceva altro.