Claudio Antonelli, Libero 19/2/2011, 19 febbraio 2011
SE CROLLA IL COLONNELLO CI PERDIAMO 10 MILIARDI
Se cade Gheddafi sono beduini amari per tutti noi italiani. È vero, abbiamo chiuso gli occhi sul suo stravagante concetto di democrazia (scusate l’eufemismo), sui diritti umani calpestati per anni e pure sulla sua particolare visione dell’Islam. Ma il crollo del suo clan potrebbe avere due effetti negativi per l’Italia e pessimi per la Libia.
Un eventuale successore potrebbe essere ben peggio del Colonnello in termini di diritti umani e di democrazia. Soprattutto se profumasse di Al Qaeda. L’altro effetto riguarda i soldi. I petrodollari sono il motivo per cui in Italia e non solo (Berlusconi non è stato l’unico a stringere accordi con Gheddafi, anche Sarkozy e l’Inghilterra si sono dati da fare) si sono chiusi gli occhi sulla politica dittatoriale. La ragion di Stato in tempo di crisi ha spinto il piede sull’acceleratore delle alleanze. Loro, i libici, i soldi, noi il know howelaCina-digrancarriera-a insediare entrambe le cose. Il rischio è a) perdere quei soldi; b) vederli rifluire fuori dai confini italiani verso paesi nemici; c) al tempo stesso vedere sciogliere la barriera maghrebina che ci difende dall’invasione economica cinese.
Il sistema economico tricolore in questo momento non può permettersi di perdere le partecipazioni libiche in Unicredit, la seconda banca d’Italia, o in Finmeccanica, la quarta società di difesa del mondo. E si parla di quattro miliardi nel primo caso e di oltre
100 milioni nel secondo. Ma a valere per il sistema Paese
non sono solo gli investimenti diretti. Ci sono pure quelli indiretti: un sacco di business in terra d’Africa. A cominciare dalla partita petrolifera che come contro altare ha la compartecipazione dell’Eni. Nel dicembre del 2008 la stessa presidenza del Consiglio annunciò la volontà della Libia di utilizzare società finanziare controllate dal governo, alias il clan di Gheddafi, per salire fino al 10% del Cane a sei zampe.
Ovviamente una caduta del raìs di Tripoli creerebbe problemi anche agli appalti di Finmeccanica, sebbene resti l’azienda tra le tre in questione, più blindata grazie alla grande diversificazione del portafoglio e dei rapporti. Certo, l’impatto politico non sarebbe da poco, ma anche in questo caso l’urto più forte si vedrebbe nel sistema bancario. Non bisogna dimenticare che la scalata del beduino di Tripoli all’Italia cattolica si deve in parte a Cesare Geronzi. Fu lui oltre tredici anni fa ad aprire sia il por-
tone di Capitalia sia i salotti buoni di Roma. Anche se l’idea originaria non fu sua. L’amicizia tra il leader libico e l’Avvocato Agnelli è senz’altro antecedente e ancora oggi dal punto di vista quantitativo vale il 7,5% della Juventus.
Basta, poi dare un’occhiata al sito web dell’Ice, Istituto per il Commercio Estero, per capire che le più grandi imprese italiane hanno tutto l’interesse nel mantenere un piede nel deserto libico. La Sirti si sta occupando di piazzare 7 mila chilometri di cavi in fibra ottica. Un affare da circa 70 milioni di euro. Anche Prysmian, che si occupa sempre di cavi, ha un contratto da 35 milioni di euro con Lybia General Post. Nel 2008 Impregilo ha vinto una gara da quasi un miliardo per costruire tre centri universitari nei pressi della capitale. E poi ci sarebbe la cuccagna degli appalti futuri. Due grandi opere (metropolitana e ferrovia) che da sole valgono più o meno 7 miliardi di euro e che se saltasse la testa di Gheddafi diventerebbero una incognita di difficile risoluzione. La storia insegna che le infrastrutture, quando ci sono i soldi, sopravvivono ai cambi di regime perché servono al territorio. Si tratta di capire con quanti mesi o anni di ritardo si porterebbero a termine. E questo l’industria lo sa bene. Diverso è per la finanza. Succede infatti che gli amici del nemico quando quest’ultimo cade diventano improvvisamente nemici nostri. E se la poltrona del raìs finisse in mani sbagliate potremmo dire addio ai 10 miliardi investiti qui da noi oltre il Mediterraneo.