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 2011  febbraio 22 Martedì calendario

LE TRIBÙ ROMPONO IL PATTO DI REGIME I CAPI DEI CLAN CON I MANIFESTANTI

i sbriciola l´edificio sociale su cui poggiava il potere di Muhammar Gheddafi: una ad una la vasta rete di tribù cirenaiche, tripolitane, sahariane e poi persino della Sirte - pilastro del clan Qadhdhafi da cui il colonnello deriva il proprio nome - rompono il patto con il regime per scendere al fianco dei dimostranti.
Questo mentre piomba su Tripoli la fatwa di una cinquantina fra i più rispettati chierici musulmani, raccolti nel nuovo fronte degli "Ulema liberi della Libia". Il primo editto religioso promulgato ieri ordina al popolo di sollevarsi "poiché il governo ha intensificato i crimini contro l´umanità. Ribellarsi è un dovere divino". Altre salve di anatemi partono all´indirizzo "dell´incestuoso Gheddafi e dei suoi figli". Sadiq al-Gheryani, figura religiosa con largo seguito nel Paese, arringa le folle, e la notizia del suo arresto infiamma le piazze. Poi, dalla tribuna di Al Jazeera, gli fa eco lo sceicco al-Qaradawi, star dei predicatori televisivi. Chiede "alla Libia di mobilitarsi contro il regime" e "a chiunque nell´esercito libico sia in grado di sparare una pallottola a Gheddafi, di farlo".
Ma a picconare le fondamenta del regime di Gheddafi sono per primi i leader della potentissima tribù di Werfalla, quando annunciano che "ora il colonnello non potrà più contare sulla loro protezione". Alleati della prima ora contro la monarchia senussita radicata nella Cirenaica, erano stati per questo ricompensati dal "leader della rivoluzione" con importanti incarichi ai vertici delle forze armate e della sicurezza. L´annuncio del loro sostegno ai rivoltosi è il segnale che l´impianto tribale su cui Gheddafi ha fondato il potere si sta sgretolando.
Quel calderone di tribù in cui il colonnello lasciava sobbollire ad arte le rivalità, è un impianto di cui Gheddafi andava fiero. Giustificava il suo imperio. Rintuzzando le richieste di riforma, ripeteva: «Noi non possiamo fare esperimenti di democrazia, non abbiamo strutture politiche: i nostri partiti sono tribali. Il pluralismo ci porterebbe a un bagno di sangue". Così le antiche antipatie fra i clan di Sabha, dei tripolitani e della regione di Bengasi costituivano il tratto distintivo della Jamahiryyia, man mano che il "leader della rivoluzione" trasferiva ricchezze e potenza alla cerchia ristretta della propria famiglia e del clan Qadhdhafi, radicato nella Sirte, attingendo a un forziere di 200 miliardi di dollari rimpinguato dagli entroiti del petrolio, in cui affluiscono ogni anno altri 50 miliardi.
All´annuncio della sfida dei Werfalla, alla richiesta pronunciata dal loro sceicco Akran al-Werfalla che il leader libico lasci il Paese, le piazze esultano: "Gheddafi è finito". Una ragione c´è: la rete tribale presto si sfalda. Seguono in poche ore le defezioni di decine di clan, che hanno fatto la storia della Libia: i Rafla, i Zawhiya, gli Hawara, i Nefussa, i Zenata, i Ketama, i Sanhaja, i Tebu, gli Zintan, i Furjan.
Quando si sparge la voce che persino i Touareg, il ceppo originale berbero della Libia, abbandonano il regime, è chiaro che l´impianto costruito da Muhammar Gheddafi è svaporato. La tribù Azaweya fa di più: minaccia di interrompere le forniture di petrolio all´Europa se l´Occidente non interverrà per "impedire la mattanza del popolo", se "riterrà il petrolio più prezioso del sangue dei libici".
Finchè esplode la sorpresa: anche i Qadhdhafi si spaccano. Una parte della tribù avrebbe preso la Sirte assieme ai rivoltosi. Il governo smentisce. Ma la Federazione internazionale della Lega dei diritti umani conferma. Se la Lega ha ragione, il destino di Gheddafi è davvero segnato.