ETTORE LIVINI , la Repubblica 22/2/2011, 22 febbraio 2011
VOLA IL PETROLIO, CROLLA LA BORSA PER L´ITALIA SPA SARÀ UNA STANGATA
L´Italia Spa rischia di pagare un conto salatissimo alla crisi libica. Il primo scossone è arrivato ieri da Piazza Affari (crollata del 3,59%, con l´oro decollato oltre i 1.400 dollari l´oncia e il petrolio schizzato ai massimi dal 2008), dove le aziende tricolori più attive nel paese africano - Eni, Unicredit, Finmeccanica e Impregilo - hanno bruciato da sole 6 miliardi del loro valore.
La bolletta finale rischia però di essere molto più salata. Il Belpaese – complice l´asse di ferro Berlusconi-Gheddafi – è il primo partner commerciale del Colonnello. È a rischio il fiume di greggio (un quarto del nostro fabbisogno) che scorre ogni giorno da Tripoli a Roma. Sono in bilico commesse e investimenti italiani per una quarantina di miliardi. Molti decollati tre anni fa, quando il Cavaliere ha firmato il "patto d´amicizia" bilaterale regalando al leader dalle Jamahiriya un assegno da 5 miliardi in 20 anni (più la Venere di Cirene) per chiudere le ferite del colonialismo.
Il nodo energetico. È il capitolo più delicato. La Libia è il primo fornitore di petrolio dell´Italia: Tripoli garantisce il 23,3% del nostro fabbisogno di greggio (ogni giorno ce ne "spedisce" 50mila tonnellate). Gheddafi ha in mano anche il rubinetto da cui passa il 12% del gas consumato nel Belpaese, dopo che qualche mese fa – per ridurre i propri debiti – l´Eni ha girato alla libica National Oil Corporation una quota e la gestione del gasdotto Greenstream che collega la costa africana a Gela (Sicilia). Spostare le fonti di approvvigionamento – dicono gli esperti – è complesso in situazioni di normalità. Oggi, con il Medio Oriente in fiamme e il Canale di Suez nell´occhio del ciclone, l´addio al petrolio di Gheddafi rischia di trasformarsi in una Caporetto per l´economia italiana. Anche perché gli altri nostri fornitori di fiducia – Russia(14,8%), Iran (13,8%) e Azerbaijan (13,1%) – non brillano per stabilità politica.
Gli affari a rischio. L´Eni, come ovvio, è l´azienda italiana più esposta. I suoi pozzi pompano 244mila barili al giorno nel deserto libico, poco meno del 15% della produzione del Cane a sei zampe. Il numero uno Paolo Scaroni, forte del feeling Berlusconi-Gheddafi, ha ottenuto l´anno scorso un allungamento di 25 anni delle concessioni in loco in cambio di 28 milioni di dollari di investimenti in 25 anni, tra cui diversi progetti di edilizia sociale. Trema anche Finmeccanica. Il colosso della difesa ha appena aperto un impianto per l´assemblaggio di elicotteri Agusta e ha incassato commesse per 1.750 milioni per rifare i sistemi di segnalamento ferroviario nel paese e 300 destinati a sistemi per il controllo dei confini meridionali della Libia in chiave anti-immigrazione. Un miliardo di appalti ha pure Impregilo, cui è stata affidata la costruzione di tre centri universitari. L´Istituto per il commercio estero stima in 130 aziende e 600 dipendenti la presenza italiana in Libia. Sirti sta posando 7mila km. di cavi (valore 68 milioni), Trevi segue grandi progetti nel cuore di Tripoli, alcune imprese lavorano al terminal container nel porto di Tripoli. «Commesse per diverse centinaia di milioni», dice l´Ice, sono state assegnate a Friulana Bitumi e Pontello & Vannucchi nel campo delle infrastrutture. Un altro grande business (potenziale) a rischio è l´"autostrada dell´amicizia": 1.700 km di asfalto lungo la costa tra Tunisia ed Egitto finanziati da Roma – quasi 3 miliardi la spesa prevista – la cui costruzione doveva essere affidata a realtà italiane. Visto che l´amicizia in questione è quella con Gheddafi, resta da vedere cosa succederà ora.
L´asse finanziario. Un´altra grande incognita è il destino degli investimenti finanziari libici in Italia. Dopo l´operazione Fiat negli anni ´70, Tripoli è tornata a investire in Italia i suoi petrodollari con la benedizione di Berlusconi. I fondi di Gheddafi, forti di 100 miliardi di liquidità, sono i primi soci con il 7% di Unicredit, controllano il 2% di Finmeccanica e della Fiat, il 7,5% della Juventus, il 21,7% della Olcese (tessile) e il 14,8% della Retelit. Secondo l´Ice, la Gheddafi Spa era pronta a investire in Mediobanca («fino a 500 milioni»), in Telecom, Impregilo e Generali.