RAFFAELLO MASCI, La Stampa 22/2/2011, pagina 34, 22 febbraio 2011
Fratelli d’Italia la lingua s’è desta - Parliamo l’italiano da settecento anni e oggi il 94% della popolazione non sarebbe in grado di esprimersi correttamente se non in questa lingua
Fratelli d’Italia la lingua s’è desta - Parliamo l’italiano da settecento anni e oggi il 94% della popolazione non sarebbe in grado di esprimersi correttamente se non in questa lingua. Ma non è stato sempre così, anzi questa acquisizione è uno dei portati principali dell’unità d’Italia: 150 anni fa, infatti, solo il 2,5% degli italiani utilizzava compiutamente la lingua nazionale, un altro 6,5% era in grado di comprenderla senza parlarla, mentre il 78% della popolazione era totalmente analfabeta e capace di esprimersi unicamente in dialetto. I dati sono contenuti nella «lectio» che Tullio De Mauro, professore emerito di filosofia del linguaggio, ha tenuto ieri mattina al Quirinale, in apertura del convegno «La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale», inserito nell’ambito delle celebrazioni del 150˚ anniversario dello Stato unitario. La lingua, dunque, che era dell’Italia fin dai tempi di Dante (e a questa origine alta ha dedicato il suo intervento lo scrittore Vittorio Sermonti), è diventata effettivo patrimonio degli italiani solo nell’ultimo secolo e mezzo, per effetto della scolarizzazione, in massima parte, ma anche grazie alla tv, come ha ricordato un filmato con i materiali dell’archivio Rai, allestito da Gianni Minoli. Tuttavia, il prestigio che da sempre la cultura del nostro Paese ha nel mondo ha consentito - negli ultimi anni - di veicolare in almeno 66 idiomi stranieri un ampio lessico italiano, specie nei campi della moda, della gastronomia, della musica, come ha spiegato il linguista Luca Serianni. Qualche esempio: pizza esiste in 60 lingue, spaghetti in 54, tiramisù in 23, pesto in 16. E così via. Ai libri che hanno fatto l’Italia «una» - dai Promessi sposi fino al ricettario dell’Artusi - ha dedicato la sua prolusione Carlo Ossola, italianista del Collège de France, mentre sull’italiano moderno e le sue vicissitudini telematiche ha catalizzato l’attenzione dell’uditorio il semiologo e scrittore Umberto Eco. «L’Italia - ha detto in conclusione il capo dello Stato Giorgio Napolitano - non può essere presentata come un Paese linguisticamente omologato», tuttavia «in questo spirito possiamo e dobbiamo mostrarci seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico patrimonio nazionale di lingua e di cultura e della sua vitalità; e seriamente consapevoli del duro sforzo complessivo da affrontare per rinnovare - contro ogni rischio di deriva - il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere in una fase critica, e insieme ricca di promesse, di evoluzione della civiltà europea e mondiale». Qui sotto pubblichiamo alcuni stralci dagli interventi più significativi. Umberto Eco Con gli sms Nino Bixio è diventato «Bi per Io» Oggi si discute sul 17 marzo festa nazionale, ma - ha detto Umberto Eco parlando a braccio - «anche se l’Unità venisse infranta, come alcuni vogliono, non verrebbe comunque meno l’italiano». Il paradosso è «che quelli che ritengono l’italiano come base della nostra unità sono gli stessi a cui dà noia l’Italia post-Risorgimentale» e che «vogliono scrivere i cartelli stradali in dialetto». Eco ha anche spiegato che l’Italia non si è «assestata sull’italiano basico di Mike Bongiorno»: «Se parlate con un tassista di oggi è come un laureato degli Anni 30. Parla un italiano medio-alto rivolgendosi ai propri figli che, invece, non sanno più parlare italiano. La pratica degli sms ha portato uno studente a leggere Nino Bixio come Nino Bi per Io. Questa è una generazione che non legge più giornali e non guarda più neppure la tv, dove almeno potrebbe trovare Vespa o Bersani che parlano un italiano ragionevole, quanto alla forma almeno». «Non so quale sarà il futuro dell’italiano - ha aggiunto il semiologo -. Una sola previsione mi sento di fare: la lingua nazionale sottolinea la serietà e veridicità dell’intenzione. Con il dialetto, invece, si torna a una situazione di universo chiuso, quindi la regressione al dialetto diminuirebbe la possibilità di contatto con il resto del mondo». Vittorio Sermonti Lasciamoci leggere dalla Commedia Certo, non si può leggere la Commedia senza lasciarsi leggere da lei, come pretende un limpido paradosso di George Steiner. Ma l’io che legge Dante lasciandosi leggere non è l’io mortificato dal consumo quotidiano di luoghi comuni, dall’assillante catechesi del mercato: è l’io intero e segreto che la nostra voce conosce meglio di noi. Ma sì, non ci preoccupiamo troppo di come e quanto a Dante si possa assegnare la dubbia benemerenza di essere nostro contemporaneo. Più di tutti i grandi poeti del passato (e del presente), Dante, che verifica la sua gloriosa idea dell’universo e la storia atemporale di Dio nei cattivi odori della cronaca, insomma nella sua fetida contemporaneità, ingiunge a chi lo legge la responsabilità di essere radicalmente contemporaneo di se stesso... e all’Italia d’oggi consegna una stupenda polifonia vocale in qualche modo ancora futura, e un prezioso blasone d’identità. Tullio De Mauro Si è avverato il sogno di Foscolo e Manzoni Quel 10% di persone che usavano abitualmente l’italiano negli Anni 50 è cresciuto nel 2006 fino al 45%. Il 64% che usava sempre e solo uno dei dialetti e schivava l’italiano si è ridotto di dieci volte, al 6%. Il 49% parla l’italiano e però alternativamente anche, specie nella vita familiare e privata, uno dei tanti dialetti. L’omologazione che nel 1964 Pier Paolo Pasolini paventava non c’è stata. Tuttavia il 94%, abitualmente o no, conservando o no modi regionali e il dialetto nativo, converge verso l’italiano. È un grande fatto, è un fatto radicalmente nuovo. In tre millenni di storia nota delle popolazioni che hanno abitato l’Italia mai vi era stato un pari grado di convergenza verso una stessa lingua. Quello che Foscolo, Cattaneo, Manzoni avevano sognato, che un giorno l’italiano diventasse davvero la lingua comune degli italiani, è diventata realtà nell’Italia della Repubblica democratica. Luca Serianni Quando il «lombardo» era un tipo di cavolo Non si può tacere il contributo che all’espansione degli italianismi ha dato l’economia tardomedievale: spicca la Toscana col suo fiorino , il nome che è stato accolto altrove per indicare la divisa nazionale (nei Paesi Bassi fino all’adozione dell’euro e in Ungheria), ma è notevole anche la vitalità dei centri mercantili settentrionali. Un solo esempio: lombardo è stato usato come antonomasia per indicare il mercante italiano che svolgeva la sua attività all’estero, prestando a usura; proprio come avviene oggi per anglicismi correnti, che hanno sviluppato significati ignoti alla lingua d’origine ( slip , ticket «contributo sanitario») o sono stati creati ex novo ( beauty case ), anche un fortunato italianismo come lombardo ha assunto altrove significati sconosciuti in patria (non tutti sopravvissuti modernamente): da «monte di pietà» (russo, inglese, neerlandese, danese, ungherese) a «prestito su pegno» (cèco, ungherese), fino ad accezioni irradiatesi per altre strade come «tipo di cavolo» (portoghese, spagnolo del Messico) o «capomastro» (catalano). Carlo Ossola «Ricòrdati di vergognarti qualche volta» Di fronte a questo mondo com’è, con la sua lingua pieghevole, di bugie e di astuzie [il mondo di Pinocchio , ndr], sta - nella nostra tradizione - l’altro canone della lingua italiana, quello del mondo come dovrebbe essere, anche solo nel modo di intrattenersi col prossimo e che si riassume nell’asciutto aforisma che suggella il Galateo di monsignor Della Casa, il quale preso atto del mondo com’è: «Né vendere si deono le cirimonie e le carezze a guisa che le meretrici fanno, sì come io ho veduto molti signori fare nelle corti loro, sforzandosi di consegnarle agli sventurati servidori per salario» (cap. XVII); si premurava tuttavia di raccomandare l’imitazione del mondo come dovrebbe essere e, non raggiungendolo, suggeriva almeno: «Ricòrdati di vergognarti qualche volta».