Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 22/2/2011, 22 febbraio 2011
QUEL CHE RESTERÀ DOPO IL RAIS, UN PAESE DIVISO
«La Libia ha bisogno di qualcuno che la faccia piangere non ridere»: questa frase di Gheddafi in un’intervista del novembre 1971 all’Express apre la strada al dittatore assoluto, che farà fuori quasi tutti i compagni che avevano partecipato al golpe del 1969.
Quale Libia avremo dopo Gheddafi? Per azzardare uno scenario bisogna sapere cosa ha fatto il Colonnello in questi 41 anni di potere. La famiglia, il clan, la cabila e l’islam: questa è la Libia che ci lascia in eredità, un paese che dopo i vaneggiamenti sul potere del popolo è ancora radicato nelle strutture tribali.
Come Saddam non riuscì a forgiare una nazione unitaria, con le conseguenze che abbiamo constatato nel 2003 dopo la sua caduta, Gheddafi ha mancato l’obiettivo di costruire uno stato moderno e si è rifugiato nelle tribù, prima di tutto nella sua, la Ghaddafiah. Il raìs libico, quando si è accorto di avere fallito, si è appoggiato, con il riflesso automatico della cultura beduina, su una rete di fedeltà e alleanze tradizionali.
La Libia lo ha tradito sin dall’inizio. Del resto aveva l’ambizione non di guidare un paese poco popoloso e marginale, ma uno stato come l’Egitto o la Turchia. Voleva essere il nuovo Nasser, magari di più. Per questo ha tentato l’unione con l’Egitto, la Tunisia, la Siria, finanziando guerre e velleitari tentativi di eversione: nel mondo arabo riscuote ben poche simpatie.
Ha sprecato centinaia di miliardi di dollari in armamenti, con un esercito troppo esiguo per manovrare inutili carri armati e flotte di cacciabombardieri. Per questo si serve di mercenari e milizie personali: delle forze armate non si fida. Sembra che nel Fezzan ci siano 40mila soldati pronti a combattere agli ordini di un tale comandante Hamali, non si sa se per appoggiarlo o farlo fuori.
Il colpo di stato militare è forse l’unica soluzione per non vedere affondare la Libia come avvenne nel ’92 con la Somalia di Siad Barre. Le nostre ex colonie hanno solitamente destini tragici. Per la verità non tutti gli armamenti libici sono stati sprecati: le forniture del l’americana General Dynamics in queste ore sono impiegate dal figlio Kamis per massacrare i dimostranti di al-Bayda.
Anche se si salva, Gheddafi e i suoi dopo queste stragi difficilmente potranno governare la Libia, e se accadrà avremo un paese instabile e insanguinato. Il Colonnello ha fatto terra bruciata, eliminando ogni alternativa. Dei dodici componenti originari del Consiglio rivoluzionario sono sopravvissuti in pochi. Chi non è in esilio, è stato ammazzato o è finito in carcere. Jallud, amico d’infanzia, è stato emarginato mentre in Marocco molti anni fa mi indicarono Omar al-Meheishi, che nel colpo di stato del ‘69 aveva occupato Tripoli. Fu fatto rientrare e scomparve nel nulla, insieme a due disgraziati collaboratori. Una soluzione di continuità con il regime precedente è quasi da escludere.
I movimenti laici sono stati decapitati. I più agguerriti erano nel Fronte di salvezza nazionale che nel ‘93 organizzò un’insurrezione con il soldati del colonnello Haftar e il sostegno della tribù Orfella: si concluse con l’impiccagione di decine di ufficiali. L’opposizione secolarista, che si appoggia a militari ed ex gerarchi, è stata a lungo disunita, divisa sugli obiettivi e incapace di elaborare una strategia comune. Per questo il Colonnello con i laici ha avuto buon gioco.
Ben diversa la storia con gli islamici. Tre sono le componenti della possibile disgregazione libica: l’integralismo islamico, le storiche rivalità regionali, le contrapposizioni tra tribù e cabile.
Questi fattori si intrecciano in una miscela esplosiva in Cirenaica, dove l’opposizione islamica è sempre stata attiva, riaffiorando anche in questa rivolta. Sarebbe strano il contrario, perché questa è la patria della Senussia. Dalla confraternita del Gran Senusso, predicatore di stampo integralista, derivano i movimenti anti-colonialisti come quello di Omar el-Muktar, impiccato dal generale Graziani.
Il Fronte combattente islamico ha sempre trovato reclute in Cirenaica, a Derna e al-Bayda, oltre che nelle aree interne nel Gebel Akhadar. Non è un caso che qui siano in corso combattimenti feroci. Quello che non torna, nella versione di Tripoli, è attribuire la presenza degli islamisti a componenti straniere: non sono da escludere ma non rappresentano la parte più importante. Si tratta di una scusa accampata da Seif Islam per legittimare lo sradicamento con la forza di ogni opposizione. È stato proprio Seif, nella primavera scorsa, a tentare un negoziato con gli esponenti del Fronte islamico, che sono tutti libici.
La loro richiesta era la restituzione dei corpi dei 1.270 carcerati trucidati a sangue freddo nel ’96 nella prigione di Abu Salim. Una domanda impossibile da soddisfare: vennero tutti sepolti in una fossa ricoperta con una gettata di cemento. Da questa catena di sangue e di vendette derivano i pericoli maggiori per il futuro della Libia.