EGLE SANTOLINI, La Stampa 22/2/2011, pagina 23, 22 febbraio 2011
L’uomo che unì l’Italia sui fornelli - Sappiamo tutti che cosa si festeggia il prossimo 17 marzo, ma anche il 30 è una ricorrenza per l’orgoglio nazionale: cent’anni fa moriva, a 91 anni e dopo una vita saporosamente vissuta, l’uomo che con «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene», pubblicato nel 1881, unificò la gastronomia italiana
L’uomo che unì l’Italia sui fornelli - Sappiamo tutti che cosa si festeggia il prossimo 17 marzo, ma anche il 30 è una ricorrenza per l’orgoglio nazionale: cent’anni fa moriva, a 91 anni e dopo una vita saporosamente vissuta, l’uomo che con «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene», pubblicato nel 1881, unificò la gastronomia italiana. Forlimpopoli e Firenze, le sue città, preparano per Pellegrino Artusi celebrazioni speciali, complete di convegno storico, cene a tema, mostre e pubblicazioni (il programma completo è al sito www.casaartusi.it). Ed è il gran ritorno del signore romagnolo coi favoriti, un personaggione bizzarro educato in seminario ma antipapalino, mazziniano e pazzo per i gatti Bianchino e Sibillone, misogino ma devotissimo in modo platonico alla sua cuoca Marietta, alla quale dedicò un panettone (numero 604 nel catalogo delle 790 ricette) «migliore assai del panettone di Milano che si trova in commercio e che richiede poco impazzimento». Già: Artusi di solito non cucinava in proprio, ma sapeva come si fa. Soprattutto, viaggiava alla ricerca delle specialità di ogni regione, dal presnitz di Trieste (numero 560: «eccovi un altro dolce di tedescheria , e come buono!») ai maccheroni con le sarde alla siciliana (numero 88: «di questa minestra vo debitore a una vedova e spiritosa signora il cui marito, siciliano, si divertiva a manipolare alcuni piatti del suo paese»). Il tutto veniva poi tradotto in un toscano sensuale e preciso insieme, parente della lingua collodiana di «Pinocchio», che visto il successo del libro contribuì a fare l’Italia: 14 edizioni nei primi vent’anni, che per il 1931 erano diventate 32. Figlio di un mercante di Forlimpopoli, il giovane Pellegrino non fu più lo stesso dopo la «notte del Passatore». Siamo nel 1851. Artusi, trentunenne, ha già bazzicato, oltre al seminario di Bertinoro, l’Università di Bologna, dove non si è laureato ma ha incontrato Felice Orsini, il futuro attentatore alla vita di Napoleone III, che all’Osteria dei Tre Re, tra una discussione politica e l’altra, lo ha ribattezzato con sprezzo «mangiamaccheroni». La notte del 25 gennaio, la banda del brigante Stefano Pelloni, il «Passatore», occupa il teatro di Forlimpopoli e rastrella come riscatto ai terrorizzati spettatori 40 mila scudi. La stessa sera, la banda fa razzia in casa Artusi. Una delle sorelle di Pellegrino, Geltrude, viene aggredita e non si riprenderà più dallo shock. Il futuro gastronomo decide invece di lasciare la città, e da allora risiede a Firenze, dove frequenta i letterati del Gabinetto Viessieux. Marco Malvaldi, giallista pisano in cima alle classifiche con il suo «Odore di chiuso» edito da Sellerio, in cui Pellegrino contribuisce alla risoluzione di un delitto, è una gran fonte di aneddoti: «Lo sa come si vendicò dell’epiteto di Orsini? Nel suo libro cita l’episodio, e poi, per passare a un altro argomento, usa una frase di raccordo che è tutta un’allusione all’attività terroristica dell’amico-rivale: “e adesso torniamo a bomba”... Ma sono i suoi eufemismi quelli che mi entusiasmano, il modo in cui dribbla le volgarità. Per mettere all’erta i suoi lettori dagli effetti collaterali dei cavoli, per esempio, ricorre alla mitologia e li definisce “figli di Eolo, dio dei venti”». Perché Artusi non si sposò mai? «Era un tipo da servette, da vedove inconsolabili, non un marito. Ma confessò “di non aver mai pagato né picchiato una donna”. Con una certa ritrosia, come se fosse una debolezza d’animo». Solo Marietta scalfì quella corazza. E ne ebbe in cambio, in coppia con l’altro cuoco Francesco Ruffilli, i diritti d’autore in eredità. *** I fan: “Per imitarlo dimezzate le dosi e attenti al colesterolo” [E. SANT.] È possibile, oggi, riprodurre le ricette dell’Artusi? Quanto s’impenna il colesterolo? «Le analisi di laboratorio non le abbiamo ancora fatte, ma nei dolci Pellegrino mette dalle quattro alle sei uova, più che torte sono pezzi marmorei non lievitati». Irene Festa, 27 anni, di Trieste, è impegnata dall’estate scorsa in un progetto che attiene al fanatismo: con il fidanzato Luigi Langella («lui fa solo la bassa manovalanza») sta tentando di riprodurre, nel giro di un anno o poco più, tutte le 790 ricette della «Scienza» artusiana. Fonte d’ispirazione Julie Powell, che fece lo stesso col libro di Julia Child. Com’è andata finora? «Non male. Il nostro è un intento filologico e dunque cerchiamo, per quanto possibile, di non inserire adattamenti. Basta farci un po’ la mano. Per esempio, dopo un po’ si capisce che la “carnesecca” è la pancetta». Gli ingredienti davvero impossibili? «Abbiamo molto faticato a trovare il piccione. Missione compiuta. Forse. Ho il dubbio che ci abbiano venduto un galletto. Poi ci sarebbe il pavone, per una ricetta ancora da provare. Lei non sa quanto è difficile trovare un pavone. Ce ne hanno promesso un esemplare femmina: del maschio, neanche a parlarne. E la vescica di bue, necessaria per il cappone in vescica, credo che segnerà la nostra unica sconfitta». Tutte preparazioni per stomaci forti. «Soprattutto per il metodo di cottura, e lì qualche aggiustamento è necessario. Artusi raccomanda di cuocere le cipolle fino a quando non sono marrone scuro, e il burro fino a quando è brunito: oggi proprio non si può. Stiamo parchi con la quantità d’olio, per le torte dimezziamo gli ingredienti. Altri piatti, invece, sono perfetti anche per i nostri tempi: quasi tutte le pastasciutte, anche se quella con le uvette un po’ mi ha disgustato, sono perfette anche per una cena del 2011. E pure i secondi di pesce, come il baccalà alla bolognese». La sua ricetta preferita? «Finora la 355, il lesso rifatto. Oggi si è persa l’abitudine di cuocere la carne e di ri-cuocerla. E invece eccome se ne vale la pena».