MARCO BELPOLITI, La Stampa 22/2/2011, 22 febbraio 2011
UNA TRAGEDIA SENZA IMMAGINI
Niente immagini dalla Libia. Nessuna o quasi foto che trapeli attraverso la totale censura del governo e dei militari. Nessuno dei filmati cui siamo abituati, ripresi con cellulari, macchine foto digitali, piccole telecamere.
Qualche istantanea sfumata, non il solito diluvio che ci circonda ogni giorno per ogni avvenimento grande o piccolo che sia, dalle chiacchiere in libertà del presidente all’ultima manifestazione a favore o contro. Ma che cos’è che vediamo davvero quando guardiamo fotografie, o brevi filmati, che ci documentano gli avvenimenti che accadono lontano da noi? Tanto e poco insieme. Tanto perché un’immagine, per quanto parziale o incompleta, ci dice qualcosa su quello che succede, così che dalle istantanee che arrivano da Teheran sappiamo quello che avviene nella capitale iraniana nonostante l’oscuramento mediatico, o almeno ce l’immaginiamo, poiché grazie ai riquadri pixelati ricostruiamo per frammenti, per porzioni, il tutto che c’è là.
La realtà si dà sempre come una parte, e mai come un insieme completo, e di quel tutto le fotografie sono schegge, frantumi, cocci. E anche senza una didascalia, una scritta, ancora essenziale nel web, come nella carta stampata, noi non sappiamo davvero cosa abbiamo visto. Ce l’hanno insegnato, dopo Walter Benjamin, John Berger e Susan Sontag: la didascalia nutre la nostra visione alla pari dell’immagine.
E oggi che il mondo arriva a casa nostra attraverso quell’effluvio di visioni, che si palesano, quasi per incanto e con assoluta necessità, sul frame del computer, lo stesso su cui sto battendo questo testo, cosa vediamo? E soprattutto come vediamo? Attraverso il buco di una serratura. La visione delle istantanee elettroniche, colte al volo da reporter dilettanti o professionisti, non importa, che giungono via Internet sul nostro visore personale, sono qualcosa di molto limitato, frammenti di frammenti, particelle elementari che si staccano di colpo dall’azione convulsa delle folle ed entrano nei nostri occhi. Per quanto ci sforziamo di guardare sempre di più, e meglio, noi vediamo tutto quello che accade lontano da noi con la coda dell’occhio.
Una visione distratta, per quanto necessaria e indispensabile, sulla base della quale ricostruire, o tentare di ricostruire, quel tutto che ci sfugge. Eppure non c’è avvenimento degli ultimi trenta o quarant’anni che non sia stato esperito da noi in quel modo, a partire dalle immagini del Muro, che cade e si frantuma, sotto i colpi dei tedeschi dell’Est e dell’Ovest, per arrivare al collasso gassoso delle Torri Gemelle o alle rivolte di piazza che da settimane infiammano il mondo arabo, la costa meridionale del Mare Nostrum. Vediamo senza vedere. Da un certo punto di vista noi siamo come dei mastodontici Polifemo che, al posto dell’occhio hanno la videocamera digitale di un rivoltoso o di un reporter coraggioso o fortunato. Vediamo con un occhio solo e spesso di sfuggita, perché il mondo scappa davanti a noi. E inseguirlo, cercare di vedere cosa accade lontano dal nostro senso tattile, è davvero difficile. Come mostrano molte delle istantanee di uno dei più bravi e celebri fotoreporter italiani, Paolo Pellegrini, oggi esposte a Milano presso Forma, la visione è diventata nel riquadro stampato del grande inviato qualcosa di sfuggente, di sfumato, a volte persino di sfuocato e nebbioso, poiché è così che si vede davvero, mentre si corre dentro un corteo, mentre si cerca di sfuggire a un mitragliamento della folla, alle manganellate dei poliziotti, oppure si coglie al volo la disperazione di una vedova di guerra.
Il vero problema del presente non è più quello delle singole immagini, più o meno eclatanti, o straordinarie, ma, come scrive Pellegrini, creare un archivio della nostra memoria collettiva. Senza questa memoria siamo ciechi.