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 2011  febbraio 22 Martedì calendario

E Carducci definì ingiuste le guerre coloniali - Gli studenti della mia ge­nerazione, sono nato nel ’27, furono vittime a scuola di una inconfessata combutta di crociani e fascisti per affollare i programmi di poesie di Carducci, sul quale Croce fece pure un lungo sag­gio, prima nella Letteratura del­la Nuova Italia , poi pubblicato a parte, sempre dal solerte La­terza

E Carducci definì ingiuste le guerre coloniali - Gli studenti della mia ge­nerazione, sono nato nel ’27, furono vittime a scuola di una inconfessata combutta di crociani e fascisti per affollare i programmi di poesie di Carducci, sul quale Croce fece pure un lungo sag­gio, prima nella Letteratura del­la Nuova Italia , poi pubblicato a parte, sempre dal solerte La­terza. Come mai così distanti correnti culturali celebravano lo stesso poeta? È presto detto. Tutto si era incagliato funesta­mente per tanta letteratura con la frase che si attribuisce a D’A­zeglio: «Bisogna fare gli italia­ni ». Ci si mise­ro tutti, seppu­re algidamente ignorandosi, poiché la poesia di Carducci e­ra nutrimento ideale. Il mio ginnasio per le prime due clas­si delle medie, da cui ci sloggia­rono le bombe della seconda guerra mondiale, era intitolato proprio a lui. Nell’atrio c’era un busto in bronzo del ’bardo’, di fosche tinte: con delicatezza per non farci accorgere, strofi­navamo entrando il palmo del­la mano sul naso che ormai lu­ceva dorato, si diceva che por­tasse fortuna. Al liceo, molto lontano (la guerra spostava le famiglie come fossero immagi­ni di legno su una scacchiera), avevo un eccellente professore di lettere antiche, che non sde­gnava di citare i moderni, an­che Carducci per esempio, con un tono alto per nulla ricatta­torio. Aveva il dono, essenziale per un insegnante, sulle orme di Francesco de Sanctis, di ispi­rare amore per la letteratura, funzione primaria della scuola, lontanissima allora dall’aura attuale che sembra preparare la scolaresca alla contestazione e basta, di tutto. Ero forse il suo allievo prediletto («perché – precisò una volta – è il solo che legga tanto fuori del dovuto») e, soggiacendo al suo insegna­mento, comprai faticosamente (la mia tasca era pur quella di uno studente sedicenne in tempi difficili) sedici volumi dell’Opera Omnia del Carduc­ci, che ne conta almeno il dop­pio, pubblicata da Zanichelli, verdolina. Mi trovai appena fi­nita la guerra all’Università. In quel trambusto il poeta perì, anche la pace fa vittime. Ma senza rancore, come un fosso lasciato indietro. Mezzo secolo dopo, mi capitò di fornire parte dell’Opera Omnia a un italiani­sta perché nelle librerie non c’era più una sola edizione del­le poesie e un editore aveva de­ciso di ripresentarlo (fascisti e crociani ormai sbiaditi). Da grande, industriale e roman­ziere, mi sono occupato delle vicende coloniali, quadro a lungo ricorrente del lavoro let­terario. Così scopersi due livelli di orrori: le guerre coloniali e la letteratura coloniale (cui con­corsero tutti, con pochissime eccezioni, come Gaetano Sal­vemini). E io dicevo: «Così i sommi dell’epoca: D’Annun­zio, Pascoli eccetera... Magari il Carducci, fosse stato vivo, li batteva tutti, a voce spiegata». Un’infamia. Per una volta la realtà smentendomi mi riem­piva di gioia: ecco cosa lessi quando venni a capo della ri­cerca. Richiesto nel 1887 dal sindaco di Roma, duca Leopol­do Torlonia, di dettare l’epigra­fe celebrativa per il monumen­to ai Cinquecento di Dogali (prima guerra etiopica) nel piazzale della Stazione Termi­ni, Giosuè Carducci così rispo­se: «Il popolo italiano vero, il popolo italiano che lavora e che pensa, quello che non par­teggia e non specula, e non s’i­nebria e non tira alle avventu­re, quel popolo dico, interroga­to puramente e severamente, risponderebbe che non vuole esserci: non vuole esserci per­ché guerra non giusta, e gli a­bissini hanno ragione di re­spingere noi come noi respin­gevamo o respingeremmo gli austriaci...» (lettera aperta ne Il Resto del Carlino , 15 maggio 1887). Che riposi in pace.