Giuseppe Baiocchi, Corriere della Sera 20/02/2011, 20 febbraio 2011
IL DOLORE E IL RITORNO. COSI’ IL SENATUR SCONFISSE LA MALATTIA
Esce giovedì 24 febbraio il libro «Bossi. Storia di uno che (a modo suo) ha fatto la storia», di Giuseppe Baiocchi (Edizioni Lindau, prefazione di Giuseppe De Rita). Pubblichiamo stralci del capitolo 11, intitolato «Il dolore» e dedicato alla malattia che colpì il leader della Lega Nord nel marzo del 2004. Nevicava fitto all’ alba dell’ 11 marzo 2004 quando l’ ambulanza, chiamata con urgenza dalla moglie di Bossi, aveva prelevato il ministro sofferente nella sua casa e scendeva a fatica le vie tortuose di Gemonio diretta all’ ospedale di Varese. Era indispensabile un rapidissimo intervento dei medici: la crisi cardiaca e la debolezza respiratoria si aggravavano a ogni minuto. E il mezzo di soccorso procedeva molto lentamente sulle strade innevate. Si decise in quei concitati momenti di deviare verso Cittiglio, dove era ancora attivo un piccolo presidio ospedaliero, rimasto aperto dopo le proteste degli abitanti contro la sua prevista soppressione. E lì l’ intervento immediato e premuroso dei sanitari fermò il processo degenerativo. (...) Così curato e stabilizzato il Senatùr venne trasferito nella stessa mattinata all’ Ospedale di Circolo di Varese e ricoverato al quinto piano nel reparto di rianimazione. E lì, secondo i protocolli medici, cominciò la sedazione, quel «coma farmacologico» indotto per ridurre l’ attività cerebrale (...). (...) I tempi, a volte affannosi, della politica sono sempre diversi dai tempi ovattati e «lunghi» della sanità. Non lontano dal capezzale di Bossi si muoveva il frastuono delle attese, delle congiure, delle speranze egoiste di una folla indistinta e tuttavia vociante e confusa. La lotta del potere interna alla Lega, le ambizioni e le voglie represse di successione, il sincero e comunque disordinato affetto dei militanti, l’ inedito e sorprendente rispetto del Palazzo, che, per la prima volta, si interrogava su un’ assenza dolorosa, sul silenzio obbligato di un leader che comunque aveva segnato nel bene e nel male quella lunga, complessa e forse indecifrabile stagione succeduta al tracollo della Prima Repubblica. A Bossi si scoprivano umanamente affezionati molti (se non quasi tutti) coloro che l’ avevano combattuto, ne avevano testardamente negato il peso e l’ influenza, oppure l’ avevano liquidato come un fenomeno di provincia marginale e passeggero. Tornava a tutti alla mente la fine drammatica eppure di inusitata grandezza di Enrico Berlinguer (...). Perché l’ assenza certa e sicuramente non breve del leader leghista apriva un vuoto nell’ equilibrio complessivo del sistema politico che sembrava incolmabile. (...) A prendere in mano la situazione fu la moglie Manuela (...). Infatti costruì rapidamente un muro di difesa della tranquillità del paziente (...). E sul terreno politico affidando la fedeltà alla linea del Capo al ristretto gruppo dirigente del movimento (Giorgetti, Calderoli, Castelli e Maroni) che pilotarono la nave alle elezioni amministrative di qualche mese dopo. Intanto (...), il mondo politico e lo stesso Palazzo restavano come sospesi, ancora attoniti dalla notizia ricevuta quel giovedì di marzo. Paradossalmente più colpiti dal malore di Bossi che dalla contemporanea vicenda che quello stesso giorno, nella stessa mattinata, aveva lasciato sì attonito il mondo intero. E cioè l’ attentato del terrorismo islamico alla stazione ferroviaria di Madrid. (...) Lo smarrimento suscitato dalle imprese di Bin Laden (...) costringeva non solo ad aggrapparsi al senso di un’ autentica e rinnovata identità del territorio, ma a combattere senza remissione quel «dolce veleno» del multiculturalismo (...). A suo modo dunque, nel pretendere a gran voce il contrasto all’ immigrazione clandestina, a scoraggiare le moschee, a filtrare con regole rigorose gli ingressi nel Paese, il Bossi aveva prima di tutti colto e interpretato un comune sentire popolare di allarme e di comprensibile diffidenza. Però, proprio quando l’ onda minacciosa degli attentati e delle stragi penetrava nell’ Europa (...) quella voce era silente e immota, priva di coscienza in un letto di dolore. E forse, anche per queste coincidenze, il sentirsi improvvisamente «orfani di Bossi» suscitava un di più di affetto e di vicinanza che andava ben al di là della cerchia pur allargata dei fedeli e dei simpatizzanti. Taceva il Bossi in «coma farmacologico» e forse non avrebbe parlato più. (...) E il risveglio, pur se indotto e controllato pazientemente con la sapienza dosata dei farmaci, non appariva sicuro e definitivo. Così, quando avvenne a più di un mese dal grave insulto, lasciava impregiudicate tutte le prognosi di un recupero completo delle facoltà cognitive. (...) E allora il Bossi, che non si vergogna della malattia e della fisica debolezza (...) appare fiaccato e malridotto. (...) La fase di riabilitazione si è consumata in lunghi mesi in un istituto specializzato di Brissago, nel Canton Ticino. (...) Ne uscirà comunque modificato. Nell’ aspetto, con una chioma ingrigita e un po’ meno ribelle, e pure nel carattere, più comprensivo, talvolta meno spigoloso, più aperto a cogliere e a considerare il peso della dimensione umana, la forza degli affetti, l’ indulgenza necessaria per meglio convivere. E ci sarà anche una nuova saggezza, una inedita capacità di mediazione e di intelligente compromesso, senza per questo rinunciare a obiettivi conclamati e a decise battaglie politiche.
Giuseppe Baiocchi