Marco Fortis, Il Messaggero 20/2/2011, 20 febbraio 2011
PREZZI A RISCHIO
Simpatia perché l’opinione pubblica e i media europei ed americani auspicano che le rivolte possano sfociare in un’ampia transizione di molti regimi, ormai per tanti aspetti anacronistici, verso forme di democrazia moderna. Preoccupazione perché l’instabilità politica e sociale e i tumulti che interessano contemporaneamente così tanti Paesi africani e del Medio Oriente possono avere sviluppi imprevedibili. Uno di questi è il rischio di un esodo di migliaia di profughi verso l’Europa, esperienza che l’Italia sta già vivendo con lo sbarco delle prime ondate di rifugiati tunisini a Lampedusa ma che potrebbe ingigantirsi enormemente estendendosi anche a profughi di altre nazioni, dall’Egitto all’Algeria, dal Medio Oriente al Golfo Persico. Poi c’è il timore che la transizione politica in alcuni Paesi “delicati” dello scacchiere mediterraneo e medio-orientale possa prendere una brutta piega con un’avanzata inquietante del fondamentalismo islamico. Ed infine vi sono forti preoccupazioni che così tanti focolai simultanei di tensione possano innescare ulteriori rialzi dei prezzi delle materie prime, dopo che queste ultime già da mesi sono in costante aumento sospinte dalla crescita impetuosa della domanda asiatica e da una speculazione che ormai si muove su vasta scala rendendo assai nervosi i mercati.
I disordini in Libia gettano ora ulteriore petrolio sul fuoco e rischiano di infiammare uno scenario già di per sé molto caldo. La prossimità geografica spiega sicuramente la maggiore cautela dell’Europa rispetto al Presidente Obama nel prendere posizioni politiche nette sulla crisi nordafricana e medio-orientale. Non solo. Anche i rapporti commerciali dei Paesi dell’area interessati da cambi di regime o dal diffondersi delle proteste sociali sono certamente più stretti con i Paesi europei che con l’America. Ciò spiega un certo attendismo europeo, ma è un dato di fatto che anche su questo fronte l’Europa è apparsa sin qui titubante, quasi imbarazzata, sprovvista di una propria chiara politica estera.
Fintanto che l’instabilità pareva riguardare soltanto la Tunisia e l’Egitto i timori di possibili ripercussioni sugli interscambi commerciali con l’Europa e l’Italia e il rischio di un impatto sui corsi delle commodities sono stati relativamente limitati. La Tunisia è, infatti, un piccolo Paese, mentre l’Egitto, pur assai più importante, non pareva in grado di poter scatenare da solo con la sua crisi cataclismi economici su scala globale, essendo soltanto il quindicesimo Paese esportatore mondiale di gas naturale. Scongiurata l’ipotesi di una chiusura del canale di Suez e spodestato Mubarak, sembrava dunque che il mondo occidentale potesse tirare un sospiro di sollievo circa possibili conseguenze della crisi egiziana sui mercati. Ma con il dilagare dei disordini all’Algeria, alla Libia, all’Iran e anche a vari piccoli Paesi del Golfo, dallo Yemen al Bahrain, il puzzle dei rischi di contraccolpi economici rilevanti, sia sugli scambi commerciali sia sui prezzi delle materie prime, si è enormemente complicato. Basta ricordare che l’Algeria è il terzo esportatore mondiale (dopo Russia e Norvegia) di gas naturale, con 14,5 miliardi di dollari nel 2009, e il quindicesimo esportatore mondiale di petrolio greggio, con 21,3 miliardi di dollari. L’Iran è il terzo esportatore mondiale (dopo Arabia Saudita e Russia) di petrolio greggio, con 59,8 miliardi di dollari nel 2009.
La Libia è un attore di più piccola taglia ma comunque non trascurabile, essendo il tredicesimo esportatore mondiale di petrolio greggio, con 27,3 miliardi di dollari, ed essendo, soprattutto, il primo fornitore di “oro nero” dell’Italia. Nel 2009, infatti, l’Italia ha importato complessivamente 24,1 miliardi di euro di petrolio greggio di cui 6,7 miliardi dalla Libia, cioè il 28% circa del nostro fabbisogno totale. Ma nel 2008, anno normale e non di crisi economica, tale quota era stata persino più alta, pari al 32% del totale, avendo il nostro Paese importato dalla Libia 12,8 miliardi di euro di petrolio. Sempre nel 2008 l’Italia ha importato dalla Libia anche 2,9 miliardi di euro di gas naturale e 1,4 miliardi di euro di derivati della raffinazione petrolifera.
Dunque i “numeri” dell’economia coinvolti in questa crisi si fanno di giorno in giorno sempre più grandi mentre il Maghreb, il Medio Oriente ed il Golfo Persico si infiammano un Paese dopo l’altro. I rischi di contraccolpi commerciali e di ulteriori rincari dei prezzi delle materie prime aumentano, a cominciare dai corsi del petrolio.