GRAZIA LONGO, La Stampa 20/2/2011, 20 febbraio 2011
Erika, a 10 anni dal massacro di Novi intravede la libertà - Le persone non si cancellano neppure con la morte, restano sempre le tracce
Erika, a 10 anni dal massacro di Novi intravede la libertà - Le persone non si cancellano neppure con la morte, restano sempre le tracce. Nel cuore e nella mente di Erika De Nardo ci sono quelle della madre e del fratello che lei stessa ha ucciso, insieme al fidanzato di allora Omar Favaro, con 97 coltellate. Dieci anni esatti domani. Omar, 27 anni, è un uomo libero da un anno. Erika, 26 anni, tra pochi mesi potrebbe lasciare il carcere di Verziano, periferia di Brescia. Il termine della scadenza è la primavera 2012, ma per effetto della buona condotta Erika potrebbe godere della liberazione anticipata. La prova è che da un paio di mesi esce dal carcere quasi tutti i giorni e va in una comunità alloggio. Un luogo protetto, lontano dalla curiosità e dalle attenzioni che potrebbero incidere sul suo recupero. Un luogo per ricominciare a muovere i primi passi da donna libera, con il sostegno degli psicologi e degli operatori del carcere-modello di Verziano. In comunità Erika insegue una vita normale: parla, lavora, cucina come una ragazza qualsiasi. Al riparo dal rischio di essere di nuovo fotografata, com’è accaduto cinque anni fa quando la portarono a un torneo di pallavolo nell’oratorio di Buffalora, nel bresciano. La sua immagine ha molto colpito: bella, alta, i capelli lunghi raccolti in una coda, gli occhiali da sole. «Ha diritto a una vita normale?» è l’interrogativo di molti. «Sì, è una vittima di se stessa che deve reinventarsi» la risposta di altri. Suo padre, l’ingegnere Francesco De Nardo - un uomo che si è fatto da solo e che gode della stima di chi da anni lavora allo stabilimento di Novi Ligure della Pernigotti di cui è un dirigente - non l’ha mai abbandonata. L’ha incontrata una o due volte alla settimana in carcere, prima ai minorile Ferrante Aporti di Torino e il Beccaria di Milano, ora a Brescia. Qui un anno fa ha assistito alla laurea della figlia in filosofia, con una tesi da 110 e lode su «Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici». Quella verità che la sera del 21 febbraio 2001 Erika e Omar cercarono di nascondere inscenando la pista degli albanesi. Quella verità che entrambi hanno cercato di «elaborare» nelle lunghe sedute di psicoterapia dietro le sbarre. «È sempre mia figlia», l’unico commento che Francesco De Nardo si sia mai lasciato scappare. Per il resto è una sfinge, un padre che vuole proteggere e aiutare l’unico pezzo della famiglia che gli è rimasto. Un solo punto fisso in un’esistenza sconvolta da un dolore troppo grande da raccontare. Ai funerali della moglie Susy Cassini, 42 anni, e del figlio Gianluca, 12 anni, fece preparare due corone di fiori: «Da tuo marito e tua figlia», «Da tuo padre e tua sorella». Mentre quella figlia, quella sorella era già in carcere, arrestata dai carabinieri che avevano messo i microfoni e le telecamere nella sala d’aspetto della caserma: filmarono Erika che mimava le coltellate. I giudici hanno scritto: «Due omicidi che per l’efferatezza, per il contesto, per la personalità degli autori e per l’apparente assenza di un comprensibile movente, si pongono come uno degli episodi più drammaticamente inquietanti della storia giudiziaria del nostro Paese». Sono passati dieci anni. «Erika è cambiata, è maturata ed è cresciuta anche emotivamente - dice un’educatrice del carcere di Brescia, che chiede l’anonimato -. Sono migliorati anche i rapporti con le compagne che all’inizio la sopportavano poco per la sua notorietà e per la sua riservatezza. “Principessa” è l’unico nomignolo affettuoso che le avevano attribuito, sugli altri è meglio tacere. L’esperienza nella comunità è la conferma dei progressi. Nel 2006, dopo un anno che si trovava a Verziano, le fu vietata la libertà condizionale perché secondo il giudice non appariva “ravveduta"». Il professor Carlo Alberto Romano, docente di Criminologia all’Università degli Studi di Brescia, presidente dell’Associazione «Carcere e Territorio» della città, ha seguito Erika negli studi universitari. «Ma non voglio dire nulla - esordisce - a parte il fatto che è stata molto brava e che ha dimostrato una buona capacità di studio. Spero solo che la sovraesposizione mediatica non le faccia male e non incida troppo sulle sue aspettative per il futuro». Prima dei permessi per recarsi in comunità, Erika lavorava in carcere, alla cooperativa «Carpe diem». La presidente Lidia Copeta non vuole parlarne se non per ribadire la buona volontà della ragazza «al pari di tante altre che assemblavano pezzi di rubinetteria o di plastica in cambio di un compenso». Il carcere di Verziano, costruito 25 anni fa, è un edificio basso verde oliva, con bagni e tv in ogni cella, colori vivaci alle pareti, polo universitario, 150 detenuti divisi tra maschi e femmine, laboratori, campo di calcio e di pallavolo. Erika ogni sabato pomeriggio, dopo aver visto il padre, partecipa alle partite di volley. Le stesse a cui giocava un’altra giovane che, come Erika, ha ucciso all’età di 16 anni. Una delle tre ragazze di Chiavenna che nel giugno 2000 assassinarono suor Maria Laura Mainetti, con 19 coltellate, come sacrificio offerto a Satana. «Erika è una ragazza come tante altre che si sta impegnando verso una nuova vita - dice Alberto Saldi, responsabile dello sport e delle attività ricreative in carcere a cura della Uisp di Brescia -. Per la festa della donna abbiamo previsto un concerto. Durante quello dell’anno scorso Erika ballava timidamente insieme alle compagne, al ritmo rock del duo musicale che presta volontariato». La musica rock. La sera di dieci anni fa, nella villetta di Novi Ligure, Erika alzò il volume dello stereo al massimo. Per coprire le urla di sua madre e suo fratello. *** “Vorrei solo diventare un fantasma” Omar, il fidanzato, ha lasciato la cella da un anno: dimenticatemi Omar Favaro, condannato a 14 anni, in un video girato all’epoca dei fatti durante un interrogatorio Lo osservi mentre parla e pensi automaticamente tre cose. Ha ammazzato, insieme a una ragazzina, una donna e un bambino con quasi 100 coltellate eppure ha parole e modi gentili. Sembra più giovane dei suoi 27 anni. Ha paura. Omar Favaro, l’assassino con la faccia d’angelo. Lui «il suddito», Erika «la regina», scrissero i periti del giudice all’epoca del processo. Da un anno Omar è un uomo libero in lotta contro se stesso e contro tutti. Vuole dimenticare e, soprattutto, vuole farsi dimenticare. Accetta di essere intervistato a un solo patto. «Non devi dire a nessuno dove abito e dove lavoro. A nessuno». Promesso. «Forse qualcuno può pensare che non voglio raccontare la mia storia a colleghi o amici perché voglio una vita facile, ma non è così. Ho bisogno di non essere riconosciuto. Ne ho bisogno per andare avanti, per riuscire a vivere. Non potrei sopportare di stare accanto a persone che sanno quello che ho fatto». Una cosa gravissima. «Lo so. Lo so benissimo. Non voglio parlare di quello però, perché la cosa l’ha organizzata tutta lei, io sono stato uno illuso. L’amavo tanto». Tra un po’ Erika esce dal carcere. Hai voglia di vederla? «No. Quello è il passato. Non torna più». Davvero non pensi più a lei? «Davvero. Non le porto rancore per quello che è successo. Spero che esca dal carcere e che possa elaborare anche lei come ho elaborato io. Spero stia bene». Elaborare. Parli usando un termine che utilizzerebbe uno psicologo o uno psichiatra. Sei ancora in terapia? «No, non più. Ma ne ho fatta tanta in carcere, mi è servita ad elaborare il male che ho fatto». Ti sei perdonato? «Non posso perdonarmi per quello che ho fatto. E poi non spetta a me, qualcun altro può forse perdonarmi. Ma io no». Hai mai scritto al papà di Erika per chiedere perdono? «Preferirei non rispondere, sono cose private tra me e lui». Allora è vero che gli hai scritto? «E va bene, l’ho fatto. Questo lo posso pure dire. Ma non mi chiedere cosa mi ha risposto perché tanto non lo dico. È una cosa che deve stare dentro di me. Se vuole te la dice lui». Non credo sia possibile. In questi dieci anni non ha mai rilasciato un’intervista. «Appunto, quindi io non ho diritto di parola. Posso solo dire che sentivo il bisogno di implorare il suo perdono. E comunque non basta. Lo so che ho fatto una cosa terribile. Ma non voglio neppure tornare a ricordare quella sera, non mi va di parlarne». Dieci anni esatti da quel mercoledì sera del febbraio 2010. «Ci ho pensato anch’io. Mi aspettavo che si facesse avanti qualche giornalista. Ma io non voglio essere di nuovo sbattuto sul giornale. Qui dove vivo nessuno sa chi sono. E spero continui ad essere così». Non parli mai di quello che hai fatto? «Solo con i miei genitori. E poco comunque,perché loro sanno che ho bisogno di una vita normale. Senza l’aiuto dei miei genitori sarei impazzito, mi vogliono bene per davvero e me l’hanno dimostrato. Per me sono importantissimi». Vivi insieme a loro? «No, da un’altra parte. Ho un bilocale tutto mio che costa poco. Dopo il carcere e tutto il resto era importante per me cercare di vivere come gli altri ragazzi della mia età». Perché? «Mah, un po’ non è capitato, non mi sono innamorato di nessuna. Un po’ non mi va». Hai paura di soffrire? «Sono cose mie». A parte il lavoro, cosa fai? «Quello che fanno un po’ tutti i ragazzi della mia età. Vado al cinema, vado in discoteca, mi piace tanto ballare. Le serate in discoteca sono l’unico vero passatempo che ho. A parte le partite del Milan, che però guardo solo in televisione» Hai progetti per il futuro? «Non in particolare. avanti». Sono in tanti a sostenere che sei uscito dal carcere troppo presto (la condanna a 14 anni è stata ridotta a 9 per effetto dell’indulto e della buona condotta, ndr). «Lo so che lo dicono. Ma 9 anni sono lunghissimi. E poi te l’ho detto: lo so che ho fatto una cosa tremenda». A parte il male che hai fatto non pensi mai che ti sei rovinato la vita? «Per questo ho bisogno di sparire nel nulla. Dimenticatemi. Anche tu, dimentica il posto dove mi hai incontrato. Ti prego». Una preghiera. Come quella di Susy Cassini poco prima di morire. «Erika ti perdono - le disse -, ma ti prego non fare del male a Gianluca». Livia Locci oggi è uno dei magistrati di punta del pool Fasce deboli della Procura. Ma dieci anni fa, davanti al Tribunale per i minorenni, sostenne l’accusa al processo contro Erika e Omar. Ricorda: «Fu l’esperienza più drammatica e complessa che mi sia mai capitata in ambito professionale».