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 2011  febbraio 20 Domenica calendario

Ma gli imprenditori tifano per Gheddafi - Da Bengasi è partita la «relazione speciale», a Bengasi potrebbe chiudersi

Ma gli imprenditori tifano per Gheddafi - Da Bengasi è partita la «relazione speciale», a Bengasi potrebbe chiudersi. Occhi puntati sulla Cirenaica in fiamme, croce e delizia del nostro business in Libia. Per ora si preferisce non commentare, ma è chiaro che Corporate Italia tifa per la continuità del regime. Roma rappresenta il principale partner economico della Libia. Tripoli si colloca rispettivamente al primo e al terzo posto tra i nostri fornitori di petrolio e gas naturale. Gli idrocarburi rappresentano il 99% delle importazioni italiane dal Paese nordafricano mentre il Belpaese esporta soprattutto prodotti petroliferi raffinati e macchinari, per un interscambio 2009 pari a 11 miliardi di euro, ben al di sotto dei 20,3 miliardi del 2008. Anche se la grande incognita di queste ore è la sorte del «trattato di amicizia» firmato nell’agosto 2008, proprio a Bengasi strana nemesi, da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi. Sotto la tenda beduina il colonnello sotterrò i vecchi dissapori coloniali, siglando con Roma un grande baratto: voi vi scusate e ci risarcite (5 miliardi in 25 anni), noi ci impegniamo a controllare i flussi migratori, vi concediamo l’accesso alle risorse naturali e diamo una corsia preferenziale alle vostre imprese per costruire infrastrutture di base per un importo di 5 miliardi di dollari in vent’anni. In teoria un bengodi per il sistema Italia, già presente in Libia con un centinaio di imprese attive nei settori petrolifero, infrastrutture, meccanica, beni strumentali, costruzioni e impiantistica. Capofila i campioni nazionali rimasti: Eni, presente in Libia fin dai tempi di Enrico Mattei – nel 2007 il regime ha allungato di 25 anni le sue concessioni in cambio di 25 miliardi di investimenti - con le controllate Saipem e Snam Progetti. Enel con Enel Power. Impregilo. Tecnimont. Finmeccanica. Telecom. Iveco. E poi Trevi, Techint, Grimaldi, Edison, Ocrim, Gemmo e via elencando. In sostanza, grazie all’amicizia BerlusconiGheddafi che tante polemiche sta sollevando, le imprese italiane dovrebbero via via rafforzare la propria presenza nella Giamahiria Libica, anche nei settori «non oil». Dovrebbero, appunto. Perché molti business sono in rampa di lancio: la zona franca per gli investimenti delle imprese tricolore deve ancora concretizzarsi. L’autostrada dell’amicizia, la cui realizzazione è riservata alle nostre aziende - 1700 chilometri dal confine con l’Egitto a quello con la Tunisia per 3 miliardi di investimento – è ferma al primo lotto di appalti, appena vinto dalla cordata guidata da Saipem. Il grande progetto turistico per valorizzare la costa, che potrebbe dare lavoro a tante Pmi, è ancora in alto mare. Per questo se la rivolta finora sembra non scalfire le attività italiane in loco - «nessun problema agli impianti, i nostri siti sono tutti fuori dalle grandi città», assicurano dall’Eni – una sua recrudescenza rischia di affossare l’amicizia speciale Roma-Tripoli. Solo Finmeccanica ha commesse nel Paese per un miliardo di euro: un contratto da 300 milioni per il controllo elettronico del confine Sud, affidato a Selex Sistemi integrati, e due contratti da 750 milioni per sistemi ferroviari tramite Ansaldo Sts. Anche Impregilo ha commesse per 260 milioni. Poi ci sono gli intrecci finanziari nel Belpaese, oliati dal rapporto personale e di affari Berlusconi-Gheddafi. Il colonnello è ormai il primo azionista di Unicredit, dove possiede il 4,9% tramite la banca centrale libica e il 2,6% con il fondo sovrano Lybian Investment Authority (Lia). Un investimento che si somma allo storico cheap (7,5%) nel capitale della Juventus (via Lafico), al recente ingresso all’1% in Eni (ma punterebbero al 5-10%) e al 2% in Finmeccanica, sempre con Lia. Dunque un eventuale domino, avrebbe ripercussioni non solo nel business italiano sulla Quarta sponda, ma anche nelle scatole di controllo dei gioielli del capitalismo domestico…