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 2011  febbraio 20 Domenica calendario

LA PRESUNZIONE DI LORD MAYNARD

Da una trasmissione radiofonica della Bbc del 14 marzo 1932: «Cerchiamo di non sminuire questi magnifici esperimenti e di non rifiutarci di imparare da essi. ... Il piano quinquennale in Russia, lo Stato corporativo in Italia; ... e la pianificazione di Stato in Gran Bretagna. ... Speriamo che abbiano tutti successo». Parola di liberale.

Liberale? Un utopista di tendenze autoritarie e scarsa capacità di previsione, semmai. Ebbene, signori, ecco a voi Lord John Maynard Keynes, il più importante economista del XX secolo, le cui idee ancor oggi, nel bene e nel male, influenzano le politiche economiche mondiali e la nostra vita di tutti i giorni. D’altronde fu lui stesso che disse, con la consueta ironia, che gli uomini politici credono erroneamente di essere esenti da influenze intellettuali e invece sono di solito «schiavi di qualche economista defunto».

Il libro di Hunter Lewis, economista e banchiere d’affari con la passione della saggistica, esamina in modo originale l’apparato teorico di Keynes, cercando di mettere in fila in maniera ordinata, consequenziale e facilmente comprensibile i capisaldi del suo pensiero, per poi criticarli uno a uno ricollegandoli anche alle politiche suggerite dai discepoli del grande economista, morto prematuramente nel 1946. Per Lewis, in buona sostanza, i pilastri del pensiero keynesiano riguardano i tassi di interesse, la spesa pubblica come stimolo alla crescita e i salari dei lavoratori.

L’assunto da cui parte Keynes è apodittico: nel corso della storia umana i tassi di interesse sono sempre stati troppo alti e questa è la causa della nostra miseria. I risparmiatori non mettono a disposizione tutto il capitale accumulato, provocando scarsità di denaro da investire, interessi alti e sottoutilizzazione delle capacità produttive. Deve pensarci allora lo Stato a stampare moneta per cercare di portare i tassi di interesse a un livello pari a zero. Tutto ciò miracolosamente non genererà inflazione e anzi, se in caso di depressione economica aumentare la quantità di denaro non dovesse bastare a risollevare l’economia, sarà lo Stato a indebitarsi e a spendere in opere pubbliche che, agli occhi di Keynes, vanno sempre bene. Meglio infatti un cattivo investimento che nessun investimento: di qui il paradosso che lo portò ad approvare i salari agli operai che scavano buche per poi riempirle in quanto comunque contribuiscono al Pil. Inoltre, a proposito di salari, essi non devono mai scendere, neppure in caso di recessione, perché altrimenti si innesterà una spirale negativa per la quale ci saranno meno consumi, il che porterà a meno produzione che genererà salari più bassi e così via.

Lewis ribatte efficacemente a tutte queste tesi, snocciolando i dati empirici sulla loro fallacia, come l’inflazione degli anni Sessanta, la stagflazione degli anni 70, le bolle speculative degli anni 2000. Peraltro, vengono demoliti anche gli assunti teorici su cui esse si basano: voler tenere i tassi di interesse a zero significa attuare un controllo sui prezzi del bene fondamentale, la moneta, e tali controlli non possono che fallire perché impediscono di dare il giusto valore ai beni (se non mi fido di un debitore, perché prestare a tasso zero?) oltre a essere in contraddizione con l’atteggiamento generale di Keynes, favorevole al libero commercio internazionale a prezzi di mercato.

I salari non sono un unico aggregato ma salgono o scendono a seconda delle aree geografiche o dei settori produttivi, non ha senso trattarli tutti allo stesso modo. Il deficit spending genera debito che non si ripagherà da solo, soprattutto a fronte di investimenti sbagliati decisi dall’ignoranza o dal calcolo elettorale dei politici, categoria che Keynes dimostra di disprezzare enormemente. Ma allora chi dovrebbe far sì che il mondo giri armoniosamente manovrando tassi, salari, spese pubbliche e imposte? I filosofi-economisti, o meglio, il Filosofo per eccellenza, Lord Maynard e i suoi discepoli. Sono proprio i fondamenti ideologici ed etici di Keynes a risultare i più impressionanti e porlo al di fuori di un qualsiasi solco di cultura liberale e – bisogna ammetterlo – di ragionevolezza. Il nostro economista era un intelletto brillante e irriverente, snob e immoralista come lo potevano essere le élite inglesi di inizio XX secolo. Amava la ricchezza (sua personale), divenne multimilionario nonché la figura intellettuale più riverita e temuta del suo tempo. Peccato che l’autostima di sé si trasformasse in idee politiche. Alcune utopiche, poiché Keynes preconizzava una società dell’abbondanza, in cui sia poveri che ricchi consumassero beni non da crapuloni ma da amanti del bello «per vivere bene, piacevolmente e con saggezza». Per far ciò bisognava "estirpare" le disparità economiche, non con la lotta di classe ma sotto la guida della «borghesia colta», in quanto la comunità dovrebbe porre «attenzione alla qualità intrinseca non meno che alla pura entità numerica dei suoi membri». All’interno di questa élite illuminata, gli economisti sarebbero stati gli happy few cui lasciare in mano le leve dell’economia della società. Happy few che la pensassero come lui, naturalmente, in quanto degli economisti classici Keynes si faceva beffe.

È questa visione tecnocratica, da Repubblica platonica, che non ammette il progresso attraverso diversi punti di vista ma – tutt’al più – con esperimenti di ingegneria sociale, che costituisce la vera "presunzione fatale" di Keynes e dei suoi epigoni. Il libro di Lewis ha il merito di farcela capire appieno e perciò merita di essere letto.