Giorgio Ferrari, Avvenire 20/2/2011, 20 febbraio 2011
LABORATORIO GIORDANO, RADICALI DOMATI
«Karameh, karameh!», onore, onore! La corsa a perdifiato di Akhram Ismail termina a pochi metri dal punto in cui mi trovo, all’imbocco di Rainbow Street, dove un cordone di poliziotti gli impedisce di andare oltre. Akhram ha 50 anni, da diciassette è impiegato al ministero del Turismo, il suo salario mensile ammonta grosso modo a 140 dollari. Troppo pochi per tirare avanti dignitosamente. Ed è questa la ragione principale per cui è sceso in piazza venerdì insieme ad altre centinaia di manifestanti.
Ma sul suo cammino non ha trovato gli agenti in tenuta antisommossa, come ormai siamo abituati a vedere in ogni contrada, da Algeri al Bahrein, dallo Yemen alla Libia: nel cuore di Amman Akhram Ismail si è visto inseguire da un manipolo di beduini armati di bastoni e di mazze. Gridavano: «Viva Abdallah! Il nostro sangue, le nostre anime per Abu Hussein!». Al di là del cordone di agenti, i sostenitori del governo brandeggiano un gigantesco stendardo con il volto del giovane re di Giordania.
«La polizia è rimasta a guardare – dice un ragazzo di nome Tareq – ci sono feriti ». È vero. Come è vero che quell’aumento di 28 dollari promesso dal governo ai dipendenti pubblici ha avuto l’effetto di far infuriare ancora di più la piazza. «A noi 28 dollari – dice ansimando Akhram Ismail – ai politici milioni... ». A difendere il re gli sceicchi del deserto – come l’influente Walid al-Khatib – hanno mandato centinaia di beduini. Ma questi che da cinque o sei venerdì dopo la preghiera di mezzogiorno infiammano le strade della capitale giordana chi sono, da dove vengono?
Non dobbiamo andare troppo lontano per saperlo. Buona parte dei manifestanti appartiene al Fronte di azione islamica, il braccio politico dei Fratelli Musulmani, gli stessi che a gennaio fecero saltare la poltrona del primo ministro Samir al-Rifai, che il re ha immediatamente sostituito con il navigato Marouf al-Bakhit. Non è bastato. Ma Abdallah II, il monarca hascemita seduto sopra una piramide di 5,3 milioni di sudditi, il 60% dei quali di origine palestinese, sa perfettamente di essere un re fragile, cui si richiedono antenne sempre vigili e grande fantasia e spregiudicatezza.
Anche tragica, come quella che indusse suo padre ad espellere in un bagno di sangue i palestinesi dell’Olp in quel fatidico Settebre nero del 1970. Per questo Abdallah II si muove in fretta: cambia da un’ora all’altra il premier, consente raduni pubblici senza l’esplicito consenso delle autorità, lascia balenare l’idea di una monarchia costituzionale e per la prima volta accoglie a palazzo reale i Fratelli Musulmani e i loro rappresentanti in Parlamento. Il comunicato ufficiale recita: «Il re ha riaffermato in un incontro con una delegazione dei Fratelli Musulmani e del Fronte di Azione Islamico che è importante lavorare assieme per arrivare a riforme politiche che accentuino il ruolo dei cittadini nelle decisioni». Dobbiamo partire da qui per comprendere come oggi la Giordania stia diventando un prezioso laboratorio politico, una sorta di incubatrice cui molti – chi con stizzita apprensione (come le satrapie arabe confinanti), chi con cinico disincanto (come la Siria di Bashir el-Assad), chi (come il vicino Israele) con una punta di invidia – guardano con grande interesse. Dice Zaki Bani Rsheid, uno dei leader dei Fratelli Musulmani di Amman: «Voi giornalisti siete qui per raccontare che i Fratelli musulmani sono gli ispiratori delle rivolte, ma non è sempre così. Il nuovo premier ci aveva proposto di entrare nel governo. Abbiamo risposto di no, perché vogliamo un primo ministro davvero eletto, non calato dall’alto dal re. Parteciperemmo volentieri al governo, ma solo dopo delle vere elezioni politiche ». Nessuno lo sa con certezza, ma si stima che l’elettorato simpatizzante per i Fratelli Musulmani in libere elezioni sfiorerebbe il 30 per cento. «Il re ha dato grande importanza alle tribù beduine – dice Khalil Hussein, analista di Al Jazeera – con il risultato però di trasformare le elezioni in una competizione fra sceicchi per avere un posto d’onore in Parlamento, a scapito dell’azione politica, che di fatto è inesistente e dalla possibilità di una società più moderna e socialmente più coesa». E che cosa accadrebbe nel caso di libere elezioni? «La monarchia hascemita – dice Oded Eran, ex ambasciatore israeliano in Giordania – dispone di un esercito imponente rispetto al numero di abitanti. Lo ha già usato e non esiterebbe ad impiegarlo nuovamente in caso di una sommossa vera. E questo i Fratelli Musulmani lo sanno». E poi i pericoli per la monarchia non vengono solo dall’islam radicale o moderato che sia. Anche i beduini del Mar Morto recentemente hanno alzato la cresta, attaccando la regina Rania, accusata di sperperare il denaro pubblico. «Rania – dice il deputato giordano Hamade Farane – è palestinese, molti leader tribali l’hanno accusata di alimentare la corruzione e di aiutare i suoi confratelli e anche di essere troppo occidentale nei costumi. Ma sono solo pretesti: i beduini non voglio perdere quote di potere e di privilegi, così attaccano la famiglia reale. A loro rischio».
Ma è proprio con queste tribù, il cuore transgiordano della monarchia hascemita che il sovrano deve fare i conti. Il che lo obbliga a usare il bastone e la carota, il pugno di ferro e la lungimiranza politica, le porte aperte della reggia e i cancelli chiusi delle prigioni. Abdallah è tutto questo e con questi ingredienti si va distillando il nuovo volto del laboratorio-Giordania. A capo del governo il re ha messo, non a caso, un generale, il cui compito è far dimenticare che fino a ieri le elezioni erano una farsa con dei brogli di tale entità (111 deputati governativi alla Camera bassa contro 9 dell’opposizione) da aver costretto, per puro orgoglio, il Fronte di azione islamico a non parteciparvi, e insieme ricordare a chi volesse davvero incendiare il Paese che le forze armate dispongono di 1.200 carri armati 2.300 mezzi corazzati, di che fermare una sollevazione biblica. Negli anni Ottanta Hussein, il padre di Abdallah, aveva coinvolto i Fratelli Musulmani nel governo. Ora il figlio ci riprova. I suoi generali, gli apparati di sicurezza gli hanno sussurrato un’importante verità: i Fratelli musulmani giordani – buona parte di loro, per lo meno – sono stati stregati dal modello turco, quello dell’Akp di Recep Tayyp Erdogan, partito islamico ma moderato, di lotta (all’epoca) e di governo (oggi). Bisogna coinvolgerli, parlargli, svaporare quel che resta del loro radicalismo e che altrove (come con Hamas a Gaza o con il Partito di Dio Hezbollah in Libano) ha messo radici proprio perché tenuto ai margini della vita politica.
Akhram Ismail riprende fiato. La polizia anche questa volta non è intervenuta, le squadre beduine si sono allontanate con i loro bastoni. Restano i feriti e le telecamere di al-Jazeera, che in molti considerano il vero motore della rivolta che scuote il Nordafrica e arriva fino a Teheran. Dicono sia strapiena di giornalisti simpatizzanti dei Fratelli Musulmani. Shakira, fotografa dell’emittente del Qatar, sorride: «Ma no, noi siamo liberali, nasseriani, panarabisti. Ci ha fatto scuola la Bbc...». Sugli schermi della più seguita tv del Golfo scorrono i versi di Abd al-Muhsin al-Kazimi, poeta amatissimo in Medio Oriente: « Viaggiamo, nel cuore della notte, nel deserto/I nostri cammelli procedono lentamente/ affondando i loro zoccoli/ Vanno spostandosi ora verso Oriente/ora verso Occidente, quasi dovessero misurare il deserto ». C’è una luna meravigliosa stasera ad Amman.