Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 20/02/2011, 20 febbraio 2011
PERCHE’ IL DENATO TORNERA’ A COSTARE
La bolla finanziaria e la recessione sono i frutti avvelenati della lunga caduta dei tassi d’interesse, benedetta dai governi dei Paesi sviluppati. Questo dice la nostra saggezza convenzionale. Per riprenderci inondiamo l’economia di denaro ancor meno caro: gli interessi reali, depurati dall’inflazione, sui titoli pubblici a breve sono negativi, sui decennali viaggiano sull’ 1,7%. Cogliamo la contraddizione, eppure non cerchiamo alternative: siamo convinti di poter manovrare noi, al momento buono, la leva dei tassi. Ma la saggezza convenzionale è davvero saggia? Ad alimentare il dubbio ecco il rapporto McKinsey sulla fine del denaro facile (McKinsey Global Institute, Farewell to cheap capital?, dicembre 2010). McKinsey spiega il pluridecennale calo dei tassi con un argomento strutturale trascurato dai più: il mondo ha accumulato o speso denaro più che investirlo. Nel 1970 gli investimenti assorbivano il 26,1%del Pil globale, nel 2002 erano scesi al 20,8. Ai ritmi del 1970, il mondo avrebbe investito 20 mila miliardi di dollari in più nel trentennio: l’equivalente del Pil 2008 di Usa e Giappone, 4 volte le riserve valutarie asiatiche, 5 volte i fondi «creati» dalle banche centrali per il salvataggio delle economie occidentali. Il fenomeno ha lasciato la ricchezza in mano alle imprese finanziarie e non; alle famiglie, tuttavia, si è potuto offrire credito poco costoso. (Chiosa: la lotta al rialzo dei prezzi di beni e servizi, basata sul contenimento dei salari, ha incanalato il capitale non investito verso gli impieghi finanziari, determinando l’inflazione dei valori azionari e immobiliari). Il minor contributo degli investimenti alla formazione del Pil mondiale, concede McKinsey, dipende anche dal calo dei prezzi dei beni strumentali dovuto alla tecnologia. Ma il punto cruciale è la distribuzione geografica. Il rallentamento relativo degli investimenti avviene nei Paesi sviluppati. In quelli emergenti gli investimenti tendono ad assorbire percentuali di Pil addirittura superiori a quelle di Giappone e Germania nella ricostruzione postbellica: tra il 35 e il 45%in India e Cina; i consumi interni, invece, assorbono molto meno Pil, generando così quelle riserve valutarie con cui, paradossalmente, i Paesi poveri finanziano i ricchi. Ma dal 2002 la tendenza si inverte: al traino degli emergenti, gli investimenti risalgono al 23,7%del Pil mondiale nel 2008. McKinsey li vede ai livelli degli anni 70 per il 2030. Una crescita quasi senza fine, perché nelle nuove locomotive il capitale fisico pro capite (case, infrastrutture, industrie, servizi) resta una frazione del nostro. L’urbanesimo, per dire, costringerà l’India a edificare l’equivalente di una Chicago all’anno, la Cina di una New York ogni due. Un po’ saliranno anche i consumi, e dunque i Paesi poveri finiranno con l’usare per sé il proprio denaro e magari pure quello occidentale, facendo risalire i tassi per remunerarlo: secondo McKinsey, di un 1,5%reale sui titoli decennali. Ma più della previsione conta il segnale di una tendenza che altri hanno innescato, non noi con la nostra saggezza convenzionale.
Massimo Mucchetti