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 2011  febbraio 20 Domenica calendario

L’ULTIMA PARTITA DEL COLONNELLO

Dell’esistenza di un « rischio Libia » avremmo dovuto accorgerci quando, dopo l’inizio della rivolta tunisina, il colonnello Gheddafi sostenne pubblicamente il presidente Ben Ali e si dichiarò pronto a dargli una mano. Il capo dello Stato libico aveva capito che la rivolta avrebbe potuto scavalcare le frontiere. Sapeva che il suo Paese non era meno vulnerabile dell’Egitto e dell’Algeria.
Muammar el Gheddafi è il più longevo e il più ideologico dei leader del mondo arabo. Quando rovesciò la monarchia e prese il potere nel 1969, si considerava pupillo e seguace di Gamal Abdel Nasser, il colonnello egiziano che aveva cacciato re Farouk dal Cairo nel 1952. Conosceva a memoria «La filosofia della rivoluzione» , il libro in cui Nasser aveva delineato le grandi linee di un programma nazionalista, socialista e panarabo. I suoi compagni di congiura erano, nelle sue intenzioni, l’equivalente degli «ufficiali liberi» che il giovane Nasser aveva cercato di riunire intorno a sé, con intenti antibritannici, mentre l’Afrika Korps di Rommel, nel 1942, avanzava verso Alessandria. Ha scritto il «Libro verde» perché voleva, come Nasser, impartire ai suoi connazionali e all’intera regione una sorta di catechismo politico. Ha perseguito una politica panaraba e panafricana perché desidera passare alla storia come il continuatore delle strategie geopolitiche di Nasser. Ed è colonnello, anche se avrebbe potuto aspirare a una più alta distinzione, perché questo è il grado che il suo modello egiziano conservò sino alla morte. Se qualcuno osasse parlare del suo regime come di una tiranniamedio-orientale, Gheddafi sosterrebbe di avere creato la democrazia araba: un sistema in cui il potere è esercitato «dal basso» grazie ad assemblee popolari distribuite sull’intero territorio in cui si discute, si delibera e si prendono decisioni che il governo centrale dovrà tradurre in programmi politici. La realtà è alquanto diversa. Le assemblee popolari assomigliano ai soviet, organismi che hanno dato il loro nome alla Russia bolscevica ma non hanno mai avuto alcuna rilevanza politica. La politica panaraba ha prodotto soltanto fusioni fallite, come quella libico-tunisina del 1974, l’unione libico-marocchina del 1984, l’Unione del Maghreb arabo del 1988, e una lunga serie di screzi, bisticci, incidenti di frontiera, accuse reciproche, persino una breve guerra con l’Egitto nel luglio 1977. La politica panafricana ha procurato al leader libico qualche successo formale, come la presidenza dell’Unione africana, ma pochi risultati concreti. All’origine di questi fallimenti vi sono soprattutto la sua persona e il suo stile. Gheddafi è intelligente, qualche volta persino geniale, e non è privo di un certo spavaldo coraggio. Ma è umorale, capriccioso, tirannico, una sorta di Luigi XIV del deserto, un monarca beduino che alloggia in una tenda imperiale, veste uniformi operistiche, si circonda di amazzoni giunoniche ed è dominato da una insopprimibile inclinazione a fare un uso tenebroso del denaro che le risorse petrolifere hanno procurato allo Stato libico. Secondo Angelo Del Boca, la lista dei beneficiati di Gheddafi potrebbe includere, oltre all’Ira (Irish Republican Army), il Fronte di liberazione eritreo, i guerriglieri anti-marocchini del Polisario, la Zimbabwe African National Union della Rhodesia, la South West African People’s Organization della Namibia, il Movimento per l’indipendenza e l’autodeterminazione delle Isole Canarie, il Fronte nazionale di liberazione dell’Oman, il Movimento popolare di liberazione dell’Angola, il National Congress del Sud Africa, la minoranza islamica della Thailandia e quella delle Filippine, i ribelli della Colombia e del Salvador, i curdi, i kanak della Nuova Caledonia, gli abitanti di Vanuatu nelle Nuove Ebridi. Per rendere più credibili le sue spropositate ambizioni, Gheddafi ha dato prova di una straordinaria bulimia militare: carri armati, cannoni, caccia, velivoli da trasporto e ricognizione, corvette, fregate, missili, un programma per la fabbricazione di armi chimiche e, da ultimo, l’avvio di un progetto per la costruzione di un ordigno nucleare. Non sorprende che Gheddafi sia stato, a turno, nemico di tutti gli Stati della regione, di quasi tutte le democrazie occidentali e naturalmente, soprattutto dopo i sanguinosi attentati di Berlino e Lockerbie, degli Stati Uniti. Persino i Paesi con cui aveva buoni rapporti dovettero in qualche circostanza perdere la pazienza. Chi scrive ricorda la sua visita di Stato a Mosca nella seconda metà degli anni Ottanta. Per rendergli omaggio i sovietici avevano invitato nella più bella ala del Cremlino l’intero corpo diplomatico. I padroni di casa e gli ambasciatori lo aspettarono per due ore e se ne andarono senza avere avuto l’onore della sua presenza. Gheddafi non ha avuto soltanto nemici esterni. Dopo essersi sbarazzato degli oppositori e degli esuli con operazioni mirate che suscitarono la rabbia dei Paesi in cui avevano trovato rifugio, Gheddafi ha dovuto fare i conti con i suoi avversari islamisti e sfuggire più di una volta ai loro attentati. È questa probabilmente una delle ragioni per cui gli Stati Uniti, nel 2004, decisero di revocare le loro sanzioni contro la Libia. Il leader libico non voleva fare la fine dell’Iraq e gli americani, d’altro canto, ritennero che il suo regime fosse un utile baluardo contro le ramificazioni di Al Qaeda nell’Africa settentrionale. Per facilitare l’accordo Gheddafi confessò l’esistenza di un programma nucleare e mise nelle mani degli americani le prove della «connection pachistana» (la rete commerciale creato dallo scienziato Abdul Khadeer Khan). Sembrò, a quel punto, che la salamandra Gheddafi fosse uscita indenne dal fuoco incrociato dei suoi nemici e potesse lavorare tranquillamente al consolidamento del regime scegliendo per la successione l’uno o l’altro dei suoi figli. Un calcolo tragicamente sbagliato? Per capire che cosa stia accadendo ora in Cirenaica vale la pena di ricordare le sanguinose manifestazioni di Bengasi del febbraio 2006, apparentemente provocate dalla infelice sortita televisiva di un ministro italiano, Roberto Calderoli, che sbottonò la camicia per mostrare alle telecamere una t-shirt su cui era riprodotta una vignetta satirica contro Maometto apparsa in un giornale danese. Come disse Francesco Cossiga in una intervista al Corriere, quelle manifestazioni erano molto più dirette contro Gheddafi di quanto fossero anti-italiane. La Cirenaica è la patria della Senussia, l’organizzazione religiosa che ha lungamente combattuto gli italiani sino all’inizio degli anni Trenta e ha dato alla Libia il suo primo e unico re. Nei circoli islamici di Bengasi e Al Bayda (in epoca italiana Beda Littoria), i modelli di riferimento sono quelli della Fratellanza musulmana, mentre il Libro verde di Gheddafi è un testo sacrilego e le omelie politiche del colonnello nelle moschee di Tripoli sono blasfeme. Se le rivolte di Tunisi e del Cairo sono state prevalentemente laiche, quella di Bengasi, invece, ha una forte nota religiosa. È possibile che Gheddafi possa reprimerla senza suscitare la collera di Tripoli, dove ha fatto una pubblica apparizione, venerdì scorso, passando attraverso la folla osannante dei suoi seguaci. Se invece il tentativo fallisse e il colonnello libico dovesse fare la fine di Ben Ali e Mubarak, l’Europa potrebbe trovare di fronte a sé interlocutori alquanto diversi dall’esercito egiziano e da quello tunisino. Per l’Italia, partner economico anche negli anni in cui i rapporti politici erano pessimi, la crisi libica sarebbe molto più grave delle altre due. E per Berlusconi, in particolare, sarebbe una sconfitta personale. Il presidente del Consiglio ha avuto il merito di chiudere con un accordo importante il vecchio contenzioso italo-libico. Ma ha raggiunto l’obiettivo con un rapporto d’amicizia che ha oltrepassato in qualche occasione i limiti del decoro internazionale. La sconfitta di Gheddafi sarebbe inevitabilmente anche la sua sconfitta.
Sergio Romano