Andrea Galli, Corriere della Sera 19/02/2011, 19 febbraio 2011
LA SECONDA VITA DEL VIOLINISTA. IL CONCERTO DOPO LA PARALISI —
Per qualche minuto se ne stanno buone buone. Praticamente: immobili. Del resto sono al riparo. Poi escono dai guanti e non riesce più a tenerle ferme. Casomai sparissero di nuovo. Così spazzolano i capelli, spostano sul tavolo il certificato di dimissioni dall’ospedale, girano attorno al bicchiere di spremuta d’arancia, toccano la giacca, si allungano sui pantaloni, si appoggiano su una guancia, si aprono e chiudono, stringono le maniglie della custodia. «Devo dire grazie ai miei genitori. Agli amici Alessandro e Francesco. Alla mia pianista, Stefania. Sai, non scriverlo, mi tagliava la bresaola, quando eravamo a pranzo, non riuscivo... Mercoledì torniamo insieme sul palco» .
Ci ha messo nove mesi, alla fine. I secondi nove mesi di Alessio Bidoli. Classe 1986, violinista di classe. Mercoledì, dunque. Al Conservatorio di Milano. Il primo grande concerto: 1.500 in sala. Alessio ha avuto, e superato, una malattia rara. Sindrome di Guillain-Barré. Si infiammano i nervi. Il corpo si blocca. Fino alla paralisi. «Non muovevo più nulla. Ho dovuto ricominciare daccapo. Le vedi le dita? Quattro mesi per voltare la pagina di un giornale. Sei per svitare il tappo d’una bottiglia. Altrettanti per riprendere in mano il violino, e cadeva a terra. Al nono mese, sì, mi allenavo per suonare» .
Non voglio pietismo, dice; non sono un eroe, ripete. Vedi, spiega, «i musicisti hanno un’enorme dose di narcisismo. Ma ho fatto soltanto quel che dovevo. Ce l’ho messa tutta. Forse, ecco, non passo la vita a piangermi addosso. Dovevamo fare la fisioterapia? E facciamola, dicevo, senza lamentarmi. Tanto non mi muovevo. Come potevo oppormi?» . Nel periodo di riabilitazione è passato anche alla Fondazione Don Gnocchi.
«A mezzogiorno e alle sei, pranzo e cena sempre tutt’insieme. Giusto. Uno può aiutare l’altro, capirlo, consolarlo, dargli un aiuto, una parola. C’era vicino a me un pezzo grosso, un dirigente d’azienda importante, colpito da ictus. "Mi hanno abbandonato tutti, non mi vengono nemmeno a trovare...", ripeteva» .
Quante volte si è arreso, Alessio? «La diagnosi. Il dottore mi parla. Mi dice. Aggiunge: da questa sindrome si può guarire, forse riacquisterà ogni capacità motoria, sul violino non posso garantire nulla. All’inizio provavo invidia. Guardavo uno che riusciva a schiacciare i tasti di un telecomando, e lo invidiavo. Dopodiché, ti lasci morire? Esercizi di fisioterapia. Provavo ad alzare un braccio: precipitava. Le mani? A uncino, bloccate. I miglioramenti. I piccoli passi. Giorni e giorni. E ti giuro, avessi dovuto scegliere tra riprendere a camminare oppure rimanere su una sedia a rotelle e tornare a suonare, avrei scelto la prima» .
Va di corsa, Alessio. Ha un concerto, in provincia, fra due orette, in preparazione della serata al Conservatorio. Viene da Peschiera Borromeo, dopo l’aeroporto di Linate, abita lì. Ci incontriamo a metà strada, come punto di ritrovo sceglie una parrocchia. «Ci ho passato un sacco di tempo a giocare a pallone» . Dai tram, spingendo nella calca, scendono le nonne, portano i bimbi all’oratorio. «Non sono credente. Però, sono convinto, ognuno ha il suo preciso percorso. C’è qualcuno, da qualche parte, che, insomma...» . Fa un regalo. «Ci tengo» . È un libro. Su un liutaio. Si chiamava Dante Regazzoni. Aveva una passione, un amore, un senso unico, come racconta in questo volume autobiografico. Ai tempi della guerra d’Africa cercava un violino. Ne trovò uno che gli piaceva. Costava troppo: «Avevo in tasca trecento lire, frutto di molti anni di risparmi, e me ne venivano chieste tremila» . Allora iniziò a costruirli. Non bisogna mai dimenticare da dove si arriva, chi ci ha preceduti. Mercoledì, tra Beethoven e Ravel, Alessio muoverà le mani, e le mani lo seguiranno, su uno degli antichi preziosi violini fabbricati da nonno Dante.
Andrea Galli