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 2011  febbraio 19 Sabato calendario

LA GASTRO LETTERATURA

Che la cucina sia una cosa seria (perché è una cosa seria il cibo) non è più argomento di dibattito. Perché il dibattito è ormai chiuso, stravinto dalla nuova gastronomia «politica» che salda il discorso sull´alimentazione alla cultura, alla storia sociale, all´agricoltura, all´economia, all´ecologia.
Sulle ali della vittoria, capita però che l´entusiasmo tradisca chef e ristoratori di vario calibro: dai sommi agli imitatori. Tra poche settimane sarà il centenario della morte di Artusi e il suo manuale resta il più famoso al mondo. Ma un secolo dopo trionfa la gastro-sofia, con cuochi che fondano scuole di gusto e creano formule linguistiche vagamente situazioniste. Così la lettura di certi menù è involontariamente comica, come capita con quei cataloghi d´arte che cercano di intimidire il lettore.
Lo sprofondano nello sgomento facendolo sentire indegno fruitore di opere che lo sovrastano. Tra pietanze «declinate», «scomposte», «destrutturate», «virtuali», e preparazioni in forma di «soffi», «nuvole», «arie», «ventagli», «tramonti», «idee», «ombre», «suggestioni», «declinazioni», «variazioni», è come se le pratiche culinarie, non importa se vecchie, nuove o seminuove, non importa se davvero ingegnose o solo avventate, venissero rivestite di un non richiesto sussiego artistico-culturale. Così che un onesto budino, se spacciato per «formella di biancolatte con pioggia di cacao forte, stille di caramello e ribes nero», diventa pregiudizialmente odioso.
Le tendenze gastro-linguistiche dominanti sono due. La prima è uno sfoggio maniacale, e non richiesto, di tutti gli ingredienti del piatto: «La scaloppa di vitella su letto di scarola di campo con ristretto di marsala, scaglie di cedro e sale di Cervia», specie se fiancheggia altre venti pietanze ugualmente verbose, sfinisce l´avventore, anche quello meglio disposto, prima ancora di essere ordinata. Si capisce che l´intenzione è la glasnost - devi sapere tutto quello che ti metto nel piatto, e devi sapere con quanta cura seleziono gli ingredienti - ma il risultato è un pedante elenco della spesa, un «vedi quanto sono bravo» che non dispone alla simpatia. Tanto che il bravo oste, o il bravo cameriere, con la complicità del cliente spesso by-passa un menù così ingombrante: data un´occhiata alla carta e messala da parte, si procede verbalmente, abbreviando la pratica e stabilendo un contatto umano che ha il valore di un soccorso. E´ un po´ quello che accade con l´eccesso di funzioni e opzioni di certi cellulari barocchi (la tecnologia ha una micidiale tendenza barocca): ci si concentra su «on» e «off», e su come fare una telefonata, si trascura il resto e soprattutto si mette il libretto d´istruzioni in fondo a un cassetto confidando nell´oblio che il tempo regala alle cose inutili.
La seconda tendenza è ottenere stupore, uno stupore appunto barocco («è del poeta il fin la meraviglia») che muta l´avventore nello spettatore attonito di uno sfoggio di bravura. Posto che nessuno rimpiange quei brutali menù di trattoria dove stava scritto «bistecca», «insalata» e «minestrone», e fare ulteriori domande offendeva il cameriere, oggi le «confidenze dell´orto raccolte in coccio» hanno ottime probabilità di essere un minestrone, e le «proposte di foglie di stagione in bouquet» un´insalata.
Il recente e clamoroso successo dei libri gastro-pop come quello della Benedetta Parodi, che semplificano di molto, e in un colpo solo, le tecniche di cucina e il linguaggio che le illustra, è anche una reazione a questo barocchismo vagamente intimidatorio. Con un fondo (non proclamato, ma evidente) di polemica anti-snob e anti-chic, e il magistero di madri e nonne (e figlie con poco tempo per cucinare) che rivendica il suo spazio, la sua egemonia. Come in altri campi, gli eccessi «colti» provocano contro-eccessi disimpegnati, e orgogliosi di esserlo. Ma la gastronomia popolare, specialmente in Italia, è cultura in se stessa, tradizione profonda, e sarebbe un bel guaio se opposti estremismi, per così dire, si contendessero l´uno il monopolio della gastronomia «alta», quella che cucina astruso e parla difficile, l´altra della gastronomia «bassa», veloce, televisiva e immemore delle sue profondissime radici popolari e della sua cultura antica. Una scissione del genere, in un paese come il nostro nel quale ricette raffinate nascono dalla fame, e dalle tavole dei ricchi i cibi della tradizione contadina non sono mai stati sfrattati, sarebbe assurda e antistorica.
Ma torniamo ai nostri chef magniloquenti, e ai loro menù nemici della semplicità. Ad accompagnare un linguaggio fuori misura, la mutazione delle stoviglie, smisurate anch´esse. Sparita la vecchia fondina, radiati i normali piatti da pietanza, ecco spropositate ceramiche dal diametro enorme, alcune anche quadrate, e per contrasto piccolissime scodelle, bicchierini, cubetti. Il contrasto tra un grande disco di ceramica bianca e il mucchietto di cibo che ne occupa a stento il centro è coreografico nelle intenzioni, ma suscita nel cliente domande molto distraenti. Per esempio: avranno la lavastoviglie di Gulliver?
La speranza è che sia solo una fase di assestamento, magari perfino una fase di crescita (non delle dimensioni dei piatti, per carità). Simile a quella che travolse gli esercizi commerciali alla fine degli anni Ottanta, quando a Milano un macellaio osò issare l´insegna «Lo scultore del vitello», ai barbieri pareva indegno non essere «hair-stylist» e si sprecavano i «Non solo pane» e «Non solo scarpe». Si trattava (e per la ristorazione, evidentemente, si tratta ancora) di attirare una clientela emergente, potremmo dire di «épater les petit-bourgeois», ammantando normali consumi di un´aura lussuosa, travestendo oneste abitudini da esperienze molto chic. L´insicurezza del cliente e quella dell´esercente si saldano, formano una santa alleanza: ambedue hanno un disperato bisogno di sentirsi «di più». Che poi la qualità sia laboriosa sostanza, e non abbia bisogno di orpelli per convincere, è cosa che si impara solo conoscendo, e crescendo. Si impara che eccellenti locali hanno menù semplici, in saggio equilibrio tra l´afasia delle vecchie liste da taverna e l´inutile verbosità dei nuovi menù. Si impara che la semplicità è parte essenziale dello stile. E che veramente «colto» è tutto ciò che ha la capacità di farsi capire, farsi mangiare, nutrire.