Paola Capriolo, Corriere della Sera 18/02/2011, 18 febbraio 2011
QUEGLI «AGITATORI» CHE SI ARRESERO A STALIN
Ammaestrati come siamo dagli sviluppi storici del Novecento, oggi forse stentiamo a comprendere il fiducioso entusiasmo con cui molti artisti e scrittori, compositori e poeti russi salutarono nella Rivoluzione d’ottobre una palingenesi non solo politica, ma anche e soprattutto culturale, quasi che il nuovo stato bolscevico dovesse portare a compimento, traducendole nella realtà, le straordinarie conquiste sul piano della libertà formale ed espressiva cui lavoravano nell’Europa di quegli anni i diversi movimenti delle avanguardie storiche. Eppure per un Majakovskij, per uno Shostakovic, per quanti si riconoscevano nelle parole d’ordine dei cubofuturisti o dei costruttivisti, le cose stavano proprio così: a livello artistico essere «rivoluzionari» era per loro ovvio, quasi istintivo, esattamente come per i loro omologhi francesi, tedeschi o italiani; ma ora, all’improvviso, questa rivoluzione non riguardava più soltanto ciò che accadeva sulla tela o sul foglio. Prendeva vita, invadeva le strade e le piazze; convogliava nelle sale delle conferenze masse di popolo che sinora ne erano rimaste lontane e che adesso, per dirla con Erenburg, vi accorrevano facendosi largo a spintoni «proprio come per accalcarsi su una vettura tranviaria mezza sconquassata». Nessun artista, poeta o intellettuale aveva mai potuto contare su un uditorio così sterminato, per corrispondere al quale doveva quasi inevitabilmente farsi, come scrive Majakovskij, «agitatore» «strillone capo», sino a schiacciare, se necessario, «la gola della sua propria canzone».
Del resto, tanto il ripudio del lirismo quanto l’enfatizzazione del gesto appartengono già a quella poetica futurista che aspira, marinettianamente, all’uccisione del chiaro di luna; ma rinunciare alla «canzone» per loro non significa affatto sacrificare la forma, che al contrario, nella nuova congiuntura politica sembra poter trovare la sua massima libertà di sviluppo affrancandosi dai contenuti «borghesi» imposti dalla tradizione. È l’epoca in cui tengono banco le teorie dei formalisti, soprattutto di Skloiskij, grazie alle quali la parola si vede riconosciuto uno status estetico assolutamente autonomo e paragonabile a quello del colore in pittura, del suono in musica: compito dell’arte è semplicemente lasciarle sprigionare questo potenziale sottraendola agli automatismi della percezione consueta.
Peccato che questa fase di eroico sperimentalismo sia destinata a soccombere molto presto dinanzi all’imperioso diktat del realismo socialista, la più greve vendetta del «contenuto» su tutte le avventure formali intraprese dalle avanguardie. Già per tempo, in un discorso del 1925, Stalin ha messo in chiaro che la nuova cultura socialista deve essere «proletaria per il suo contenuto, nazionale per la forma »: un programma che Zdanov si incaricherà di realizzare. Nel ’36 la Pravda bolla come «mostruosità sinistroide » comprensibile solo dagli esteti decadenti l’opera Lady Macbeth nel distretto di Mcensk di Dmitrij Shostakovic, il quale un anno dopo dovrà compiere una mortificante ritrattazione sottotitolando Risposta pratica di un compositore a una giusta critica la sua quinta sinfonia, scritta, almeno in parte, di conseguenza: con tanto di «lieto fine» musicale, in ossequio a un regime che per realismo intendeva, sempre più esplicitamente, celebrazione agiografica della propria realtà.
L’attacco a Lady Macbeth fu uno dei momenti iniziali di una dispotica, spesso sanguinosa messa in riga dell’arte e della cultura sovietica, che presto avrebbe finito con lo spegnerne quasi del tutto il fervore creativo e che andava preparandosi da anni. Majakovskij doveva averla sentita arrivare quando, nel 1930, si tolse la vita lasciando scritto: «Non consideratemi un pusillanime. Davvero non c’è più nulla da fare». Eppure questa capitolazione era forse soltanto l’ultimo atto, imposto dall’evolversi delle circostanze esterne, di una precedente resa interiore: quello spontaneo sacrificium intellectus che lo indusse, come tanti altri, a subordinare la sfera creativa alle necessità della politica. Perché, come scrisse una volta, «non si può costringere un poeta, ma un poeta può costringere se stesso».
Paola Capriolo