Walter Riolfi, Il Sole 24 Ore 19/2/2011, 19 febbraio 2011
L’INOSSIDABILE OTTIMISMO DEI LISTINI
Mentre a Wall Street infuria il dibattito tra bullish (ottimisti, rialzisti, fautori del Toro) e bearish (pessimisti, ribassisti, sostenitori dell’Orso), l’S&P ha segnato in settimana un altro rialzo dell’1%: segno che di tanta discussione agli operatori e agli investitori interessa assai poco; oppure che la schiera degli ottimisti sovrasta largamente la seconda. Dal marzo 2009, l’S&P è esattamente raddoppiato e all’indice Stoxx mancano pochi punti per riuscirci. A sentire il coro dei bullish avremo almeno altri due anni di borse in crescita. Ce lo spiega uno che, come Thomas Lee strategist di JP Morgan, fonda i ragionamenti sulla statistica: se l’ascesa di Wall Street dovesse durare tre anni, spiega, la storia dice che la tendenza durerà ancora per un altro anno. Visto che siamo quasi al 24° mese di crescita, il fato ci destinerebbe ancora altrettanto tempo per goderci le borse.
Ci sono parecchi elementi per far credere che il momento magico continui. I risparmiatori, che fino a qualche mese fa s’erano rintanati nei fondi e nei titoli a reddito fisso, si stanno riversando adesso sulle azioni. L’economia è in netta ripresa e migliorano anche le stime di crescita degli utili societari. Infine, i tassi restano bassi e la Fed non ha la minima intenzione di alzarli, con il rischio di rovinare il meccanismo di Wall Street che funziona bene e che fa credere alla gente d’essere più ricca. Da ultimo, non accenna a calare l’ottimismo degli economisti e degli investitori, salito ai massimi storici. Di solito si prende questa indicazione come un segnale contrario. Lo si dice da due, tre mesi che quando c’è troppa esuberanza è anche il momento di una correzione. Ma questa volta le cose sembrano andare diversamente.
Convincono anche le osservazioni dei pessimisti: le ulteriori perplessità di Albert Edwards di SocGen sulla bolla immobiliare cinese e persino quelle di un incallito ribassista, come David Rosenberg, per il quale tutta questa euforia sarebbe solo la conseguenza della politica monetaria della Fed e del mare di liquidità che si sta riversando con il secondo massiccio acquisto di Treasury annunciato dalla banca centrale. Convincono le preoccupazioni di chi teme un dilagare delle rivolte nei Paesi arabi; di chi avverte (come ha fatto il Financial Times) i rischi creati dalla crescente povertà per la stabilità dei vari regimi politici nel Nord Africa, nel Medio Oriente e persino in qualche paese europeo. Qualche maligno trova che l’argomento più forte a supporto delle argomentazioni ribassiste sia invece il recentissimo passaggio di Nouriel Roubini tra la schiera dei moderatamente ottimisti. Spiega l’economista, che «tatticamente, per i prossimi mesi, le azioni potrebbero salire, visto che gli utili aziendali restano ancora forti». L’affermazione sembra contraddire tutte le precedenti posizioni di Roubini, per il quale la ripresa delle borse non era altro che un effimero rimbalzo all’interno di un secolare mercato Orso e che pertanto l’S&P era destinato a scendere di un ulteriore 30% dai minimi del 9 marzo 2009. L’economista ha il grande merito d’aver compreso in anticipo l’ultima grande crisi, ma questa sua preveggenza per gli eventi negativi gli ha anche impedito di riconoscere che dal 2010 stava cambiando il ciclo economico. Ecco perché il suo repentino mutamento di pensiero è stato interpretato da taluni come il più significativo segnale contrario. A riguardo della «forte crescita degli utili» riconosciuta da Roubini, si potrebbe semmai osservare che il continuo allargamento della forbice tra prezzi «pagati» e prezzi «ricevuti», evidente in tutti i sondaggi sull’attività manifatturiera negli Usa, è indice di una preoccupante contrazione dei margini reddituali delle aziende nei prossimi mesi.
In settimana l’S&P ha guadagnato l’1% (+0,8% il Nasdaq) e lo Stoxx l’1,1% (+1,6% Milano, +1,4% Parigi, +0,8% Francoforte, +0,3% Londra).