Ernesto Ferrero, La Stampa 19/2/2011, 19 febbraio 2011
BREVIARIO DI ETICA PER LA NAZIONE
In quinta ginnasio, il professore ci faceva distendere I promessi sposi nelle ampie pagine di un quaderno da computisteria: a sinistra dovevamo riportare l’intreccio, a destra - in ordinate colonne - i personaggi, le similitudini, i luoghi notevoli. Anche dissezionato da mani inesperte, il romanzo scopriva la fitta orditura dei fili che lo compongono; la famosa ironia dell’autore (i tremori di don Abbondio, gli agguati architettati da Agnese, i capponi di Renzo...) si offriva come compenso immediato alle fatiche degli analisti. Il ciuffo ribaldo dei bravi, fermato dalla reticella, emanava suggestioni esotiche, piratesche. Beato chi riesce ad amare I promessi sposi nonostante l’imposizione scolastica.
Il Manzoni più nostro, quello che ci fa crescere e cresce con noi, compagno e maestro di vita, è quello dell’età adulta. Sta nel gesto della mano che riprende il volume dallo scaffale.
Quale senso storico, quale intelligenza degli uomini, quale capacità di sguardo che riesce ad abbracciare tutto dall’alto per poi scendere rapidamente e zoomare fino al dettaglio minuto, più umile. Ha scritto Italo Calvino che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. I promessi sposi sono interminabili.
L’adolescenza predispone il lettore a percepire come lontananza irriducibile l’alterità favolosa dei lanzi, della carestia, della peste. L’età adulta cerca il tratteggio morale dei caratteri, le tipologie umane in cui riconoscersi. L’appartato Manzoni dimostra un sorprendente talento per la psicologia delle folle, anticipando le indagini novecentesche.
Che cos’era Manzoni prima di diventare quello che conosciamo? Confrontare tra di loro le tre stesure del romanzo significa sorprenderlo nell’intimità del laboratorio, là dove ogni scrittore è visibile senza schermi o difese (la filologia delle varianti come forma di seduta analitica?). Significa toccare con mano la pratica minuta del fare quotidiano, i rovelli dell’artigiano insoddisfatto, inflessibile con se stesso. A partire dalla drammatica questione preliminare: quale lingua usare per raccontare una storia collettiva, destinata ai posteri prima ancora che ai contemporanei? Manzoni, che ha per lingue primarie il milanese e il francese, deve trovare un strumento espressivo per la sua «cantafavola», la sua «tiritera», come la chiama con tenera sprezzatura. Prima di arrivare alla scelta del fiorentino parlato, confronta fra loro cento sistemi diversi, prova le ebbrezze e i pericoli delle diversità. La full immersion lessicale è tormento ed estasi.
Invidio a Manzoni questo viaggio di ricerca, l’esplorazione lenta, ostinata, ogni giorno esposta ai pericoli del fallimento. È anche un viaggio vero, non metaforico: il percorso che nell’estate 1827 lo porta in Toscana: Massa, Pietrasanta, Lucca, Pisa, Livorno, e finalmente Firenze. Incontra amici colti, pazienti e generosi che riuniscono «in sommo grado la scienza e la compiacenza». Il Gabinetto scientifico-letterario del Vieusseux è l’epicentro dei giacimenti verbali che cerca; non si stanca di collezionare e confrontare parole, di prendere appunti. Sui margini del dizionario milanese di Francesco Cherubini annota le parole dell’uso vivo, guizzanti come pesci.
Manzoni sa che il problema della lingua precede e condiziona ogni altro problema politico e sociale, ogni forma del vivere insieme. In ogni parola stanno miniaturizzati secoli e millenni di storia e di storie: scegliere quella giusta (e scartare le altre) è una questione di sensibilità civile, prima ancora che artistica. Per questo I promessi sposi sono anche un breviario di etica offerto a una nazione che ogni giorno deve lottare per trovare se stessa.