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 2011  febbraio 19 Sabato calendario

E BEN GURION ORDINO’ «SPOSATE DONNE ARABE»

Un manipolo di agenti dello Shin Bet (sicurezza interna) fu spedito negli Anni Cinquanta, per volere del primo ministro israeliano David Ben Gurion, in una missione senza ritorno. Dovevano bruciare i ponti, dimenticare di essere ebrei, cancellare dalla loro esistenza le famiglie di origine, rinunciare ai cibi e alle tradizioni passate. Per amor di Patria, nella loro nuova vita avrebbero dovuto non solo parlare e pregare in arabo, ma anche sognare in arabo. Perché veniva ordinato loro di diventare «agenti in sonno» disseminati in aree palestinesi, all’interno di Israele. Un giorno, forse, si sarebbero rivelati utili alla Nazione.
Questa pagina di storia, finora sconosciuta in Israele, viene svelata adesso da una rivista di questioni militari, «Israel Defense», una pubblicazione che si annuncia di assoluto prestigio potendo vantare fra le sue firme un ex capo del Mossad (Dany Yatom), un ex capo dell’aviazione militare (David Ivri) e un ex capo della polizia (Shlomo Aharonishky).
Il primo numero della rivista uscirà solo la settimana prossima: ma per vie traverse il servizio sugli agenti «dormienti» è già planato sul tavolo di una pubblicazione ortodossa (Kikar ha-Shabat), che lo ha rapidamente divulgato con toni sensazionalistici. Anche perché dischiudeva una questione teologica scottante: se cioè i figli di agenti israeliani in missione segreta con donne arabe possano essere reputati ebrei. La complessa diatriba ha già incendiato diversi siti Internet religiosi.
La necessità per Israele di disporre di agenti capaci di muoversi a loro agio in ambienti arabi era risultata evidente già all’indomani della Guerra israeliana di indipendenza (1948-49), quella che per i palestinesi è invece la Naqba (il Disastro). Per controllare la cospicua minoranza araba rimasta in Galilea, nella zona centrale e nel Neghev fu subito imposto un «governo militare» che sarebbe durato fino al 1966. Ma Ben Gurion temeva che, con una operazione a sorpresa, gli eserciti arabi sarebbero riusciti egualmente a riassumere il controllo - anche parziale - di quelle aree. Da qui la necessità di disporre in zona, a tempo pieno, di uomini fidati, capaci di inoltrare informazioni di intelligence in tempo reale.
«Israel Defense» spiega che l’incarico di costituire un’unità «arabizzante» (Mistaaravim, in ebraico) fu affidato nel 1952 dal capo dello Shin Bet Issar Harel (uomo di assoluta fiducia di Ben Gurion) a un professionista della guerra segreta, Shmuel Moria. Il materiale primo non mancava: c’erano infatti giovani ebrei immigrati da Paesi arabi (ad esempio dall’Iraq) che si esprimevano fluentemente in arabo. Occorreva confezionare su misura per loro una nuova identità. In mesi di lavoro meticoloso nella sede dell’intelligence a Ramle (Tel Aviv) e poi negli uffici dell’ex comandante palestinese Hassan Salameh, gli immigrati ebrei si sarebbero gradualmente trasformati, giorno dopo giorno, in «profughi palestinesi rientrati dall’esilio forzato».
In questa storia, è forse questo l’aspetto che più induce all’ottimismo, gli agenti ebrei in breve tempo riuscirono infatti ad amalgamarsi al meglio nella società araba. Al punto che si pensò di passare alla seconda fase: ossia di indurli a sposarsi con donne arabe e a creare nuclei familiari. Sul piano operativo, un successo totale: israeliani e palestinesi non erano più distinguibili.
Ma col passare degli anni si moltiplicarono i mugugni. Le informazioni passate dagli agenti «in sonno» erano povere, e scarsamente interessanti. Inoltre stavano mettendo su prole. Gli ex agenti soffrivano al pensiero che i figli sarebbero cresciuti da palestinesi a tutti gli effetti: non era certo quello il loro sogno, quando erano immigrati in Israele.
Alla metà degli Anni Sessanta, scrive «Israel Defense», lo Shin Bet ammise di essere giunto a un binario morto. Convocò separatamente ciascuna delle coppie e spiegò l’inganno alle consorti arabe. Ci furono comprensibilmente scene di disperazione, manifestazioni di odio, crisi coniugali. Una delle donne portò il figlio ad Amman e si sposò con un fedayn palestinese. Gli agenti «in sonno», da parte loro, pur determinati a rientrare nell’Israele ebraica, non volevano essere strappati ai loro nuclei familiari.
Lo Shin Bet allora si accollò gli oneri finanziari. Continuò per molti anni a versare stipendi e offrì ai figli di quelle coppie di scegliere se volevano restare arabi oppure ricrearsi un’identità ebraica. Ma le ripercussioni dell’esperimento in laboratorio, secondo la rivista, si avvertono ancora oggi, mezzo secolopiù tardi: perché i figli di quelle unioni concepite a tavolino negli scantinati dello Shin Bet lamentano ancora problemi ricorrenti di identità.
Come ebbe a dire anni fa una recluta, appena impugnata la sua arma: «E io adesso su chi devo puntare questo fucile? Sulla mia famiglia palestinese, oppure su quella israeliana?».