Michele Brambilla, La Stampa 18/2/2011, 18 febbraio 2011
MORANDI: «AMO IL PAESE DI PEPPONE E DON CAMILLO»
Gianni Morandi mi ripete per scherzo quel gesto che fa sempre, quel gesto per cui Luca e Paolo lo prendono in giro ogni sera. S’incurva un po’, mostra il suo bolognesissimo sorriso e stringe i pugni in avanti come un capitano che incita i compagni di squadra: «Uniti, dobbiamo restare uniti». Mancano poche ore alla gran serata in cui si ricorderà agli italiani che dobbiamo restare uniti. Ci incontriamo in uno dei pochi buchi lasciati da una scaletta massacrante di impegni e di prove: presentare un festival di Sanremo probabilmente porta via qualche anno di vita.
Lo vedi venirti incontro e ti pare di risentire occhi di ragazza, c’era un ragazzo che come me, e c’è anche un grande prato verde. A volte questo mestiere ti dà la gratificazione di stringere la mano a un monumento. Perché Morandi è un monumento nazionale. Ma un monumento che potrebbe essere un compagno di classe, un cugino, l’amico del bar. Per esempio. Quando si scrive un’intervista bisognerebbe sempre usare il «lei», anche se l’intervistato è una vecchia conoscenza. Ma con Morandi usare il lei sarebbe una falsificazione della realtà perché con Morandi è impossibile non darsi del tu anche al primo incontro.
Dicono che piace agli italiani perché appare come una persona normale, appare come uno di cui ci si può fidare, appare come uno che sa ascoltare. Ma l’impressione, anche se è solo la prima volta che ci incontriamo a tu per tu, è che non sia un’apparenza. Morandi, vien da dire, è davvero così. Non credi che il tuo festival stia avendo tanto successo anche per questa normalità che entra ogni sera nelle case degli italiani?
«Il festival sta andando bene perché davvero ho una squadra che sta lavorando al massimo. Poi, io sul palco cerco di essere proprio così, normale, perché cerco di essere me stesso. E forse sì, forse la gente in questo momento ha bisogno di normalità, è stufa di certi eccessi. Vuole percepire che chi gli sta davanti è uno come loro. Io cerco di fare un festival pulito». Veniamo subito al sodo: lo sai che ti abbiamo proposto come premier di un governo di salute pubblica?
(Morandi ride) «Sono troppo vecchio per mettermi in politica. Sai cosa mi dice sempre mia moglie? Che dovrei stare a casa a Bologna a curare l’orto».
Mai avuto la tentazione di entrarein politica?
«Mitentò tanti anni fa il Pci. Erano i tempi di Berlinguer. Mi dissero che avevano già pronto lo slogan da scrivere sui manifesti elettorali: “Morandi, la politica con la faccia pulita”. Ma non era il mio mestiere, il mio ruolo».
Non è che non ti volevi compromettere con il Pci?
«Ma dai, lo sanno tutti che io vengo da quel partito lì. Mio padre era comunista».
Tuo padre, il ciabattino di Monghidoro. Ha avuto un’importanza enorme nella tua formazione.
«Io ricordo il mio babbo che faceva il diffusore dell’Unità. Hai presente la vendita del giornale porta a porta? Allora facevano così, erano tempi di grandi passioni».
I tempi di Peppone e don Camillo.
«Sì, i tempi di Peppone e don Camillo: rivali ma pieni di rispetto l’uno con l’altro. Però erano anche tempi difficili. Sai, vendere l’Unità in un piccolo paese comunque ti esponeva».
Anche nell’Emilia rossa?
«Ma sì. Ti capitava magari che il macellaio del paese era stato fascista… Insomma c’era gente che fino a pochi anni prima s’era sparata addosso».
In che cosa però i rapporti erano migliori rispetto a oggi?
«T’ho detto: c’era più rispetto. A partire dai parlamentari. Tra comunisti e democristiani si litigava duramente, ma ciascuno vedeva nell’altro uno che aveva comunque una storia, un’idea, una competenza. E anche i militanti avevano la percezione che qualcosa di superiore ci univa».
L’essere tutti italiani?
«Sì. Mio padre raccontava che De Gasperi, quando si presentò alle Nazioni Unite al tavolo degli sconfitti, rivendicò dignità per tutti noi. Disse che c’erano 47 milioni di italiani da rispettare. E anche i comunisti si sentirono orgogliosi di De Gasperi che aveva parlato così».
Eppure erano i tempi in cui i comunisti guardavano all’Unione Sovietica. Speravano in Stalin.
«Erano i tempi in cui il mondo era diviso in due, ma pian piano partiva un cammino di conoscenza che avrebbe portato a superare tanti pregiudizi. Sai com’è morto mio padre?».
No.
«E’ morto di infarto tra una tappa e un’altra di un viaggio che ci doveva portare negli Stati Uniti. Era il 1971. I comunisti vedevano ancora l’America come il nemico: avevamo appunto tante convinzioni che poi avremmo cambiato. Io volevo far vedere l’America al babbo e lui voleva vedere l’America. Non ci è arrivato, è stato male all’aeroporto di Caracas. E’ morto che aveva solo 49 anni». Com’è cambiata la politica italiana da quei tempi? «Adesso io la politica non la capisco. Troppa litigiosità, troppe risse continue. Anche all’interno degli stessi partiti. E troppa frammentazione».
Anche l’Italia si sta frammentando?
«Ah sai, noi italiani siamo sempre stati un popolo di individualisti. Adesso poi spuntano fuori tanti particolarismi. Ma io dico: noi siamo un’insieme di tante meravigliose diversità! Ciascuno di noi è l’insieme di tante ricchezze. Lo stesso patrimonio artistico è l’insieme di tante scuole, di tante epoche, di Nord e Sud… Ma cosa saremmo senza le tante culture diverse che ci hanno plasmato, e che sono di Roma, Milano, Torino, Napoli… Noi siamo il mix di tante particolarità».
Bologna?
«Io amo Bologna, lo sai. Noi emiliani abbiamo un certo modo di affrontare le cose. Bologna è stata a lungo il modello di una buona amministrazione. Penso a grandi sindaci come Dozza, Zangheri, Imbeni… Ma lo sai che venivano amministratori locali perfino dagli Stati Uniti, a copiare il modello Bologna? Però non capisco chi sente solo l’appartenenza alla propria piccola patria. Io mi sento molto orgoglioso di essere italiano».
Eppure noi italiani abbiamo il vizio di parlar male dell’Italia.
«Sì, siamo maestri nell’autodenigrazione. Dobbiamo recuperare l’orgoglio di essere italiani. Ne parlavo ieri con Benigni. Anche lui sente fortissimo questo senso di appartenenza».
Ti commuove che sia proprio il tuo festival a celebrare i nostri primi centocinquant’anni?
«Sì, non mi vergogno a dirlo, e sono sincero. Io mi commuovo per l’Italia. E non sai quanto resti amareggiato quando sento che qualcuno vorrebbe dividerla». Com’è che dobbiamo restare, Morandi? «Uniti! Dobbiamo restare uniti, dai».