Marco Fortis, Il Messaggero 18/2/2011, 18 febbraio 2011
QUELLO CHE LE CIFRE NON DICONO
Colpisce l’ostinazione con cui i centri di ricerca ed i media continuano, rispettivamente, a produrre e a diffondere in modo inerziale statistiche sull’economia che ormai hanno davvero poco significato dopo la grande crisi globale. E che non ci aiutano a capire né che cosa è successo prima né che cosa potrà succedere d’ora in avanti nei Paesi più avanzati. Significativo è il risalto dato ieri contemporaneamente alle ultime stime congiunturali sul Pil dell’Ocse e all’ultima pubblicazione sui conti economici nazionali annuali edita dalla medesima istituzione.
Al solito l’occasione in Italia è stata propizia per sottolineare, partendo da tali dati ed accettandoli acriticamente, come il nostro Paese sia stato quello che è cresciuto di meno nell’Ocse negli ultimi 10 anni e come esso parimenti sia ora quello la cui ripresa è più debole nel G-7.
Cominciando dai dati congiunturali, la Fondazione Edison ha avuto modo di dimostrare nei giorni scorsi che se negli ultimi 15 mesi tutti i Paesi più importanti avessero ridotto la spesa pubblica come ha fatto l’Italia (anziché aumentarla considerevolmente come è avvenuto pressoché dappertutto) il quadro si modificherebbe di molto. Ad esempio, la ripresa della Francia risulterebbe assai inferiore a quella dell’Italia e quelle di Olanda e Gran Bretagna risulterebbero più o meno uguali alla nostra anziché di circa 1 punto di Pil più forti. Molti Paesi hanno semplicemente sostituito i debiti privati con quelli pubblici per tornare a crescere. Cosa che l’Italia non ha fatto. La realtà è che, al netto della spesa pubblica, soltanto la Germania in questo momento sta crescendo in Europa significativamente più dell’Italia.
Allo stesso modo, per quanto riguarda il giudizio storico sulla crescita economica degli ultimi dieci anni, le statistiche di una pur seria istituzione come l’Ocse rischiano, se non analizzate con competenza, di apparire addirittura grottesche. Agenzie di stampa e siti Internet, commentando tali statistiche, non hanno mancato di tirare in ballo il solito appellativo di “fanalino di coda” della crescita tradizionalmente appioppato al nostro Paese, dimenticando di considerare che anche la “grande” Germania, oggi da tutti guardata come modello per la solidità della sua economia, ha avuto un Pil che in termini reali è cresciuto poco più di quello italiano in media d’anno dal 1999 al 2009, piazzandosi terz’ultima su 34 Paesi Ocse nel periodo considerato.
Ci si è dimenticati altresì di notare che, secondo le statistiche dell’Ocse, i grandi campioni della crescita del Pil sarebbero invece stati, nel periodo 1999-2009, Paesi come l’Irlanda, l’Islanda, la Grecia o la Spagna che oggi sono tutti quasi “falliti” o finiti in gravissima crisi per il modo in cui il loro sviluppo era stato drogato dalla grande bolla finanziaria privata o, nel caso della Grecia, da una bolla di debito pubblico finita completamente fuori controllo. Se questa è stata la “crescita” della prima decade del XXI secolo, diciamo allora che forse è preferibile che l’Italia sia rimasta in fondo alla classifica in buona compagnia assieme alla Germania.
Bisogna poi intendersi sul concetto di crescita. Innanzitutto sul significato del Pil: va considerato il Pil complessivo o quello per abitante? Nel suo “Focus” economico del 3 febbraio scorso il settimanale britannico “The Economist” ha meritoriamente (anche se forse tardivamente) rovesciato una convinzione molto diffusa negli anni scorsi nel mondo anglosassone e per la verità anche qui da noi in Italia. E cioè che i campioni della crescita economica tra i Paesi del G-7 fossero gli Stati Uniti. In realtà, al netto della crescita demografica (molto forte negli Stati Uniti e piatta in Germania) il Pil per abitante tedesco è quello aumentato di più tra il 2000 e il 2010.
Bisogna poi considerare che nei fatti può anche accadere che vi sia una forte crescita del Pil accompagnata paradossalmente da una forte diminuzione della ricchezza. Ciò è avvenuto negli Stati Uniti, in Irlanda, in Spagna, in Grecia dove l’eccessivo indebitamento e lo scoppio della bolla finanziaria hanno lasciato le famiglie più povere di prima anche se il loro reddito per un certo numero di anni era cresciuto più che altrove. Così come può anche capitare, al contrario, che pur in presenza di una debole crescita del Pil o di una sua quasi stazionarietà il patrimonio di una nazione (costituito prevalentemente dalla ricchezza finanziaria netta ed immobiliare delle famiglie) aumenti lo stesso. Ciò è avvenuto in Italia e in Germania negli ultimi dieci anni, perché le famiglie italiane e tedesche non si sono indebitate, hanno fatto investimenti immobiliari e finanziari oculati e non rischiosi e la crescita dell’economia è rimasta saldamente ancorata alla manifattura. Sicché il rapporto tra ricchezza delle famiglie e Pil tra il 1999 e il 2009 è aumentato in Italia e Germania mentre è crollato in America e negli altri Paesi della “bolla”. Ma questo l’Ocse non ce l’ha ancora detto.