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 2011  febbraio 18 Venerdì calendario

All’osteria si favella in toscano - Che tutti gli alberghi, le locande, le osterie fossero pieni e ripieni, non è nemmeno da dirsi, ma oltre tutta questa quantità di forestieri che avevano avuta la fortuna di trovare un ricovero alle loro notti, c’ero sullo spazzo delle vie un fiume lento scorrente di sventurati senz’alloggio, che giorno e notte invadeva le botteghe dei caffè, dei trattori, dei liquoristi

All’osteria si favella in toscano - Che tutti gli alberghi, le locande, le osterie fossero pieni e ripieni, non è nemmeno da dirsi, ma oltre tutta questa quantità di forestieri che avevano avuta la fortuna di trovare un ricovero alle loro notti, c’ero sullo spazzo delle vie un fiume lento scorrente di sventurati senz’alloggio, che giorno e notte invadeva le botteghe dei caffè, dei trattori, dei liquoristi. Per due notti, sopra gli scanni di codeste botteghe, si videro accasciate delle famiglie intiere, la moglie col capo appoggiato alle spalle del marito, i figliuoli in grembo alla madre a sonnecchiare un pochino sotto la protezione d’un’acqua rossa o d’una bottiglia di birra consumata per compenso del ricevuto asilo dalle ospitali sale del caffettiere. Il teatro Rossini accortamente aprì le sue soglie a questi diseredati di letto, al diletto d’un ballo senza maschere , per pretesto a posare il capo contro l’angolo d’una parete in un seggio di galleria. Sotto le volte dei portici suonavano le più diverse pronunce di dialetti italiani che cercavano intonarsi nella comune favella; il piemontese rammolliva le sue aspre consonanti a salutare in toscano i suoi fratelli di tutta Italia, e ci riusciva... non a perfezione. E qui permettetemi ch’io m’abbandonai al mio più favorito - e forse altrui più fastidioso difetto: quello delle digressioni. Non siete voi del mio avviso, che oramai in Torino la lingua officiale, tanto dei salotti che delle strade, sarebbe gran mestieri, quasi un obbligo, fosse la italiana? Che a costituire la nazionalità d’un paese sia elemento primissimo la lingua; che sia dovere strettissimo d’ogni cittadino il sapere per bene la patria favella; che sia più grazioso, più soave, più garbato il parlar toscano del nostro rozzo e mozzicato volgare, credo che siamo tutti d’accordo nel confessarlo. Come va allora che con tanta - non dirò ripugnanza - ma lentezza, si va spandendo l’uso della lingua in questa brava città, italianissima di cuore e di propositi fra quante siano città in Italia? Come va che a quest’ora almeno le classi colte non abbiano l’italiano famigliare sulle labbra come espressione usuale e naturale del loro pensiero? E, se l’ho da dire, in codesto le classi colte ci hanno più colpa che non le inferiori; le quali su per questa strada hanno fatto relativamente molto maggior progresso. A questo povero popolo, per lo passato, chi è che ha mai insegnato la lingua della sua nazione? Ed ancora oggidì, come e dove può egli impararla del tutto? Eppure, vedete com’esso s’industria, con immensi sforzi di mente, a tradurre in quella il suo volgare, appena da un’inflessione di voce, da una desinenza di parola può capire che chi gli parla non è nato nelle provincie piemontesi! Prima del quarantotto, parlando in lingua per le strade di Torino, era poco diverso che se parlaste inglese. Vi comprendevano alle smorfie della faccia accompagnate da una mimica adattata, e vi rispondevano inalterabilmente nel più puro toscano di borgo Dora. Oggidì per contro, entrate in qualunque fondaco, interrogate qualunque portagerle sulle cantonate, e al vostro italiano udrete ribattere con un coraggioso tentativo di lingua, nel quale la buona volontà farà perdonare le offese al vocabolario ed alla grammatica. Invece in una società a garbo, dove saranno raccolti parecchi vagheggini e signore eleganti, vi potrà accadere, e non tanto di rado, che ai vostri discorsi fatti in lingua o si risponda con un impacciato silenzio, o si dialoghi poco urbanamente colle fiorite frasi del più pretto gergaccio, che facciano sganasciar dalle risa la vanità municipale del pubblico che trova un grande uomo il capocomico Toselli. [...] C’è fra i Piemontesi una sfortunata vanità, la quale per di più non ha ragione alcuna di essere; ed è che da loro s’impari molto facilmente e bene, e si parli con garbo e purezza la lingua gallica. Quest’errore, passato in tradizione proverbiale, fu già causa di troppi delitti di lesa nazionalità sulle labbra dei nostri bravi concittadini. Ecché! Voi v’immaginate parlar meglio una favella che non è vostra di quella alle cui forme grammaticali, alle radici dei vocaboli, al carattere della sintassi, vogliasi o no, più o meno attinge il volgare vostro dialetto? Disingannatevi per Dio! che gli è tempo. I Parigini, che sono meglio giudici di voi in siffatta bisogna, quando vogliono significare che un tale parla meno bene la loro lingua, usano dire: il parle français comme un Piémontais .