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 2011  febbraio 18 Venerdì calendario

Ecco a voi Paul Léautaud, cinico clochard delle Lettere - Nella foto che Henri Cartier- Bresson scattò nel 1952 all’al­lora ottantenne Paul Léautaud, c’è un concentrato di storia e di memoria

Ecco a voi Paul Léautaud, cinico clochard delle Lettere - Nella foto che Henri Cartier- Bresson scattò nel 1952 all’al­lora ottantenne Paul Léautaud, c’è un concentrato di storia e di memoria. Il vecchio si­gnore che si offre alla macchina fotografica senza degnarla di uno sguardo indossa gli abiti lisi e fuo­ri moda degni di un barbone, se a nobilitarli non ci fosse un tocco di civetteria: un foulard annoda­to negligentemente intorno al col­lo, la catena dell’orologio che at­traversa il gilet da un occhiello a una tasca, un cappello che mo­stra l’usura del tempo, ma anche la cura che nel tempo gli è stata riservata, la strisca di velluto che lo circonda lucida e ben spazzola­ta. Seduto su una sedia da giardi­no, il bastone da passeggio in grembo, gli occhi chiusi per ripo­sare una vista che andava sempre più declinando, ciò che colpisce in quel corpo minuto, fragile al­l’apparenza, sono le mani: gran­di, nodose. È grazie a queste ulti­me che dal 1893, e per più di mez­zo secolo, giorno dopo giorno Léautaud ha raccontato la sua via in un Journal , un diario di pagine che, raccolte, fan­no 19 volumi, una pic­cola biblioteca, in pratica. È sem­pre grazie a lo­ro che il solita­rio scrittore ha in quel­l’arco di tempo fat­to a me­no di qualsiasi aiuto: dal cucinarsi il pranzo al lavarsi la bianche­ria, dal ta­gliare la le­gna per il ri­sc­aldamen­to ad aggiu­stare una poltrona, Léautaud ha sempre fatto tutto da solo, ha sempre mantenuto e difeso la propria in­dipendenza. Così, in quella foto c’è il ritratto di un uomo che ha fatto della scrittura una ragione di vita e della propria libertà fisi­ca e intellettuale un comanda­mento. Classe 1872, Léautaud era in re­altà una figura del Settecento na­ta per sbaglio nel secolo successi­vo e che, per ironia della sorte, si era poi ritrovata a maturare e in­vecchiare nel tempo della moder­nità, delle masse e della democra­zia, tutte cose che gli procurava­no il massimo disgusto. Ma quel­la foto racconta anche l’ultimo ve­ro esemplare di quella civiltà del­le lettere propria della Francia, la cui ombra spiega ancora oggi il ruolo e il peso particolari che lì hanno gli intellettuali, l’attenzio­ne che li circonda, le istituzioni che li proteggono, la cura che vien loro dedicata, l’idea che sia­no un patrimonio nazionale. Adesso Sellerio manda da noi in libreria Amori (traduzione di Alessandro Torrigiani, 312 pagi­ne, 14 euro), che in un unico vo­lume raccoglie tre piccoli-gran­di capolavori di Léautaud: Amo­ri , appunto, da cui prende il tito­lo, Il piccolo amico e In memo­riam e li fa seguire da un saggio puntuale di Giuseppe Scaraffia, ovvero il ritratto di un individua­­lista misantropo chiuso nel pro­prio mondo come se fosse una cella: «Sarei stato un ottimo pri­gioniero capace come sono e so­no sempre stato di stare solo gior­nate intere, seduto immobile, as­sorto nelle fantasticherie». Sa­rebbe interessante se Sellerio pensasse anche a una nuova edi­zione italiana del Diario prima ricordato, di cui oltralpe l’edito­re Mercure de France ha pubbli­cato, quattro anni fa, un’edizio­ne scelta, dal titolo Journal Lit­téraire , incredibile racconto di una società letteraria, ma non so­­lo: gusti, abitudini, stili di vita, amicizie, inimicizie, avvenimen­ti politici, considerazioni socia­li, bilanci esistenziali. Morto nel 1956, l’esistenza di Léautaud attraversò la Belle Épo­que e la Grande guerra, i folli an­ni Venti e la crisi del ’29, il Fronte popolare e la Seconda guerra mondiale, l’epurazione e la rico­struzione. Sempre e comunque, inesauribile e instancabile, rac­contò però soprattutto sé stesso: il suo amore per gli animali e il suo disprezzo per il genere uma­no, la sua avarizia e i suoi gesti d’affetto, il rifiuto delle conven­zioni e delle forme, la passione, infantile e carnale, per le donne. Per uno che fin dalla giovinez­za si era abituato a non farsi illusioni, in primis nei pro­pri confronti, che pote­va dire di non credere a nulla, di nulla, su nulla, per nulla, il corteo reto­rico degli ideali e dei di­ritti doveva apparirgli, più che grottesco, inutile. Il disprezzo per gli onori e le convenzioni gli impedirà di cor­rere dietro ai primi e ossequiare le seconde: sotto un’apparente aridità, dietro il non volersi assu­mere responsabilità che non gli competevano, c’era una fermez­za di carattere rara in una so­cietà intellettuale dove il protagoni­smo e l’esibizioni­smo sono merci co­stanti. Il suo piacere, lo ab­biamo accennato, fu la sua scrittura: come l’erotismo, lo liberava dalla sensibilità, diveni­va uno stile di vita nel quale l’autobiografi­smo era il tratto principa­le. I romanzi brevi che compongono Amori ne sono la più perfetta testi­monianza, concentrato di innocenza e cinismo, ele­gante crudeltà e distacco. «Nessuno mi avrà conosciu­to. Sono stato, sotto il mio riso, il disincanto, la dispera­zione assoluta. Non l’ho mai mo­strato per pudore, nel timore del ridi­colo » .