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 2011  febbraio 18 Venerdì calendario

E ora il mondo teme una nuova bolla di internet - La coincidenza è di quelle che fanno scattare frenetici gesti di scon­giuro

E ora il mondo teme una nuova bolla di internet - La coincidenza è di quelle che fanno scattare frenetici gesti di scon­giuro. Il 10 gennaio del 2000 Aol, uno degli astri più lucenti della prima era d’oro di internet, annunciò la fusio­ne con Time Warner, il gigante che aveva nel suo portafoglio, tra l’altro, la Cnn, allora numero uno al mondo dei network di news. Un’operazione da 350 miliardi di dollari. L’anno do­po scoppiò la bolla e la net economy si afflosciò come un soufflé venuto male: nel bilancio del 2002 Aol Time Warner accusò quasi 100 miliardi di dollari di perdite e i due gruppi poco dopo divorziarono. Lo scorso 7 febbraio il nome di Aol è tornato a riecheggiare per un’altra acquisizione rumorosa: il sito di news Huffington Post, creato con un investimento di un milione, è stato in­globato per 315 milioni di dollari. Corsi e ricorsi, a dieci anni dalla cata­strofe in Borsa delle cosiddette dot. com? Qualche analista ha trovato il coraggio di dirlo apertamente: ma non si starà gonfiando una nuova bol­la speculativa intorno al web? I casi non mancano. Zynga, ad esempio, è uno di quei nomi seguiti con attenzione dai mercati. Si tratta dell’azienda che ha lanciato i video­game Farmville e Cityville, roba capa­ce di tenere inchiodati al monitor 140 milioni di utenti disposti a paga­re per arredi agricoli e urbani virtua­li. Si stima che l’anno scorso Zynga abbia portato a casa utili intorno ai 400 milioni di dollari. Niente male, ma sono abbastanza per rendere cre­dibile la cifra di dieci miliardi di dolla­ri come valore stimato dell’azienda? La fila degli scettici si va allungando. E che dire di Facebook? Il più rino­mato social network del mondo, un «libro delle facce» attraverso il quale tenersi in contatto con vecchi e nuovi amici, viaggia su stime stellari: 50 mi­liardi di dollari. Con tanto di timbro di Goldman Sachs, che ha accettato di comprare una fettina dell’azienda per 500 milioni. Eppure anche qui, l’azienda è an­data in utile solo nel 2009. Non è stato facile arrivare a coprire con i ricavi della pubblicità gli ingenti costi per mantenere archivi e server. Stesso di­scorso per Twitter: il sistema che per­mette di condividere messaggi lun­ghi come un sms via internet è arriva­to a connettere 200 milioni di perso­ne nel mondo e in questi giorni è di­ventato anche uno strumento utiliz­zato dai rivoltosi nei Paesi arabi. Per gli utenti è un modo divertente e im­mediato di comunicare, ma gli inve­stitori fibrillano dalla voglia di buttar­ci dentro una valanga di soldi, con­vinti che invece sia un sistema desti­nato a rivoluzionare il modo stesso in cui navighiamo in Rete. Alcune di queste società da tempo valutano l’idea di sbarcare in Borsa, circondate da una tale aura gloriosa che di sicuro raccoglieranno valan­ghe di soldi dagli investitori. Proprio come accadde con la prima febbre del web. Che poi si tramutò in polmo­nite. Certo, ora la situazione è diversa: il web 2.0, quello che ci rende tutti sem­pre più connessi, è certamente mol­to più radicato di dieci anni fa. E il mo­dello di business sottostante comin­cia a delinearsi. Ma il salto da buon affare a miniera d’oro è ancora tutto da provare. Forse c’è chi ha dimenti­cato che la bolla di internet ci costò più del crac dei derivati. Chi ha voglia di rischiare un bis?