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 2011  febbraio 18 Venerdì calendario

IL FIGURATIVO, PING-PONG TRA LA DESTRA E LA SINISTRA

Da circa vent’anni la fazione dei «risentiti» , pittori figurativi per lo più di stanco talento, è impegnata a strillare contro lo tsunami di video e foto che ha sommerso musei, fiere d’arte e mostre. Il coro degli esclusi intona unanime il lamento secondo cui la cultura ufficiale radical chic, la setta diabolica di case d’asta, collezionisti, élite di sinistra, curatori marxisti e Biennali in mano alla cricca dei salotti buoni, avrebbe emarginato la pittura figurativa, estromettendola dalle vetrine d’arte internazionali nel nome di un perenne avanguardismo di maniera.
Solo ultimamente le grida si sono affievolite perché anche i più scalmanati devono essersi finalmente resi conto che in realtà la pittura figurativa non è mai stata ostracizzata. Gente come John Currin, Luc Tuymans, Jenny Saville, William Kentridge, Marlene Dumas, sono tutti figurativi che circolano tranquillamente e con quotazioni da capogiro, nel circo dell’arte bollata di sinistra. Da noi, però, il ministro della Cultura Sandro Bondi e Vittorio Sgarbi non ne sono convinti tanto da essere ancora strenuamente impegnati a virare a destra il grande flusso dell’arte raddrizzando almeno la barra della Biennale di Venezia, in cui Sgarbi curerà il Padiglione italiano con la precisa missione di promuovere le figure. Nell’Italia di oggi, dunque, la bandiera del figurativo è diventata di destra, mentre solo fino a una ventina d’anni fa rappresentava la tipica espressione dei regimi di sinistra, in particolare del blocco sovietico. Così come nel dopoguerra italiano non si poteva essere pittori di sinistra se non si facevano le figure, come Guttuso. Siamo quindi arrivati a un curioso capovolgimento delle figure da destra a sinistra.
Il fatto è che il realismo, dal ’ 900 in poi, da quando cioè è nata l’arte astratta, è sempre stato lo stile preferito dei regimi, dalla Repubblica popolare di Corea al Myanmar ma anche del Fascismo. La ragione è semplice: attraverso le figure si può dare un messaggio chiaro, didattico e univoco, quello che ci vuole per la propaganda.
Fin dall’inizio, astratto e figurativo sono stati tesserati dalla politica, dai regimi ma anche dalle democrazie (come l’America anticomunista, che nel dopoguerra fece dell’Espressionismo astratto la sua identità culturale da esportazione). E l’astrattismo divenne il simbolo per rappresentare il futuro, l’innovazione, la libertà, il dinamismo anche trasgressivo delle idee. Ne conseguì che essere «à la page» implicava amare l’arte astratta e da lì allo snobismo culturale il passo è stato spesso breve. In un divertente saggio, «La moda dell’arte astratta», che risale al 1951, Ernst Gombrich scriveva che il giusto sistema di pensiero, o il gusto, sono il passaporto che permette al novellino di accedere a una sedicente élite: «Essere considerato di idee progressiste, assaporare il senso di essere all’avanguardia, ecco qualcuna delle poche soddisfazioni con cui la società premia l’arrampicatore intellettuale» . E prosegue: «Chiunque con pochissima fatica, può imparare che un quadro non dev’essere né "fotografico", né "aneddotico" e che non ha da essere nemmeno immediatamente piacevole» .
Come si vede le odierne invettive contro «l’egemonia culturale della sinistra», non dicono nulla di nuovo: la questione è vecchia di almeno un secolo e da allora si ripresenta sempre negli stessi termini, ovvero nei poli opposti di progressista e reazionario, sinistra e destra. Ma in una curiosa alternanza di incroci di alleanze, indifferente alle ideologie e alla coerenza del pensiero. Il realismo nacque infatti nella metà dell’Ottocento con Courbet che cominciò a dipingere scene di vita quotidiana e gente umile. Già c’era, in lui, l’intenzione di fare una pittura politica e di lanciare denunce sociali. Un pittore «di sinistra», dunque. A questo ambiva anche il nostro Pellizza da Volpedo con il «Quarto Stato» o i muralisti messicani e persino Otto Dix e George Grosz quando denunciavano le bassezze della società berlinese fra le due guerre. In questa accezione persino «Guernica» di Picasso può considerarsi un dipinto realista. Il realismo di Courbet era dunque nato con un contenuto innovativo, di rottura, non solo nella forma ma anche nel contenuto. Però, poi, come si può sostenere che anche la Pop art, figurativa senza ombra di dubbio, sia ascrivibile alla sinistra? Difficile farne una bandiera in tal senso. E d’altra parte neanche la destra figurativa di oggi potrebbe impossessarsene.
Non sarà, dunque, che l’etichetta politica è quanto di più effimero si possa appiccicare ai segni, siano essi astratti o mimetici? Certamente, a volte il gioco è riuscito ma in questi casi l’arte, con la A maiuscola, non c’entra. Sironi appoggiò il fascismo ma i suoi dipinti si rifanno a una classicità per nulla retorica e celebrativa. E a sua volta Aleksandr Deineka, o almeno quanto di lui vediamo esposto a Palazzo delle Esposizioni, era un grande artista, nonostante sia stato, senza mai vacillare, organico all’ideologia di regime. È una questione di s-vista: fra arte e politica c’è una differenza così grande che spesso nemmeno si vede.
Francesca Bonazzoli