Massimo Gaggi, Corriere della Sera 18/02/2011, 18 febbraio 2011
IL COMPUTER CHE SCONFIGGE GLI UOMINI AL TELEQUIZ —
Chi teme di ritrovarsi a vivere in un mondo nel quale l’intelligenza artificiale dell’era digitale prevarrà su quella degli uomini, l’altra sera ha sorriso quando Watson, il supercomputer della Ibm che, insieme a due concorrenti in carne ed ossa, ha animato «Jeopardy!» , il telequiz più popolare d’America, ha risposto con esitazione «Toronto» a una domanda sulla città statunitense il cui principale aeroporto ha il nome di un eroe della Seconda Guerra mondiale.
La risposta giusta era Chicago, Toronto è in Canada. E il computer ha rivelato un insolito aspetto di umana fallibilità. Ma è stata solo una sbavatura.
Watson ha macinato per tre giorni risposte quasi sempre giuste e ha battuto in tempestività i suoi avversari. Mercoledì sera ha definitivamente sconfitto con un distacco abissale Ken Jennings e Brad Rutter, i due campioni «storici» di «Jeopardy!» (che hanno collezionato premi risposta rispettivamente per 24 e 21 mila dollari contro i 77 mila del supercomputer).
Trent’anni dopo la nascita, nella «Silicon Valley» , delle prime società dei pionieri dell’ «intelligenza artificiale» , 14 anni dopo la sconfitta inferta al campione mondiale di scacchi Garry Kasparov da «Deep Blue» (un altro computer IBM), ritorna— stavolta moltiplicata al quadrato — la suggestione della macchina che sconfigge l’essere umano. Quello andato in onda nei giorni scorsi è solo un gioco, certo, ma Watson non è un fenomeno da baraccone. A differenza delle prove dimostrative del passato, stavolta la tecnologia di riconoscimento della voce è matura e gli algoritmi che scavano nelle memorie digitali sono molto più raffinati.
Appena vinta la sfida, l’Ibm ha creato il sito ibmwatson. com e ha comprato pagine di pubblicità sui giornali per spiegare che quella di Watson è una vittoria non delle macchine ma dell’uomo. Che, dice la multinazionale, trarrà benefici da una nuova tecnologia che avrà mille applicazioni, dalla medicina all’università, dalla giurisprudenza alla gestione del linguaggio (ad esempio le traduzioni).
Il gruppo americano ha cominciato a sviluppare Watson nel 2006 e non l’ha fatto di certo per farsi pubblicità attraverso un gioco popolare o per il milione di dollari messo in palio da «Jeopardy!»: la pattuglia dei venticinque ricercatori dell’Ibm guidata dall’italoamericano Dave Ferrucci (e della quale fanno parte anche alcuni «cervelli» italiani provenienti soprattutto dall’Università di Trento, molto avanzata negli studi sull’uso del linguaggio naturale in campo informatico, come ha raccontato un mese fa sul Corriere della Sera Maria Teresa Cometto), ha sviluppato una tecnologia destinata ad avere importanti applicazioni in molti campi. Già ieri la società ha annunciato i primi accordi con la Columbia University e un ateneo del Maryland per trasformare Watson in un assistente sanitario cibernetico: il medico elenca a voce i sintomi che individua sul paziente e la macchina, dopo averli confrontati rapidamente col «database» dei manuali di medicina e della casistica delle patologie, indica le possibili diagnosi.
I campi d’applicazione, assicurano all’IBM, saranno numerosissimi. Dopo 30 anni di promesse mancate e di fallimenti di «start up» tecnologiche che sembravano nate col futuro in tasca, l’era dell’intelligenza artificiale potrebbe, insomma, essere davvero dietro l’angolo. E mentre alcuni esperti ci spiegano, in saggi pubblicati da riviste come Wired ad Atlantic, che non finiremo nelle mani di «Hal 9000» (il supercomputer di «2001 Odissea nello spazio» ) e che l’intelligenza artificiale non sarà mai tanto intelligente da soppiantare quella dell’uomo, la IBM si sforza di mostrare tutti i vantaggi pratici di questa innovazione. Novità straordinarie che, però, incapsulano anche un possibile neo: un’altra tecnologia capace di sostituire forza-lavoro umana.
E se i computer-robot industriali sostituiscono gli operai, qui ad essere eliminati saranno lavori di tipo intellettuale.
Un progresso, se si riescono ad usare in modo positivo le energie che vengono così liberate e la maggiore produttività del sistema. Ma l’esperienza ci dice che la realtà è spesso molto più problematica.
Massimo Gaggi