Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 18/02/2011, 18 febbraio 2011
COSÌ LA CRISI CAMBIA LE ROTTE DEI CLANDESTINI —
Ultima tappa e ultimo carico nella cittadina libica di Zuara. Prima di attraversare il confine con la Tunisia e imboccare la striscia di asfalto, che qui, con una visione positiva della vita, chiamano «strada statale» e che conduce verso i porti defilati di Zarzis, Houmt Souk (nell’isola di Djerba), Gabes, Sfax e via risalendo. I camion libici viaggiano vuoti e torneranno stracarichi di ogni tipo di mercanzia: dai mattoni al ferro; dal detersivo agli strofinacci. Gli autisti corrono da incoscienti e non si fermano mai. Hanno fretta di caricare e di precipitarsi a Tunisi, nella centrale avenue Bourguiba, dove, ai tavolini dei caffè, sono attesi da centinaia di giovani ragazze, prostitute part-time. Veloci e spregiudicati. Con mezzi capienti e, da sempre, poco controllati. Insomma, quei camionisti fanno un po’ quello che vogliono, come pegno del fondamentale legame economico tra Libia e Tunisia (carburanti in cambio di tutto il resto). Ecco il nodo più debole nella rete antimmigrazione costruita negli ultimi anni dall’Italia con Algeria, Tunisia, Egitto e, soprattutto, Libia. In particolare l’accordo del 2008 tra Silvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi aveva segnato un punto di svolta. Le vecchie rotte dell’immigrazione africana si erano ritrovate senza il principale sbocco nel Golfo della Sirte, tra Bengasi e Tripoli; mentre le motovedette agli ordini di Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia, bloccavano i corridoi laterali d’accesso al Mediterraneo. Che fosse cinismo o inevitabile «realpolitik» , un dato di fatto è ormai certo: quell’equilibrio tra Europa e Africa sta saltando. Le prime voci sono partite da ambienti francesi non ben identificati (forse i servizi segreti, forse le ambasciate locali). Le agenzia di stampa transalpine le hanno rilanciate in Rete nei giorni scorsi: attenzione, presto potrebbero rimettersi in movimento le carovane dei disperati in fuga dalla miseria dei Paesi subsahariani. Da sinistra a destra, guardando la cartina geografica: Mali, Niger, Chad e Sudan. Con rinforzi provenienti dalla fascia ancora più a Sud, dalla Nigeria all’Etiopia, fino al Kenia. Gli osservatori più qualificati, in questa fase, si mantengono prudenti. Così Marck Petzold, il direttore della sede di Tunisi dell’Organizzazione internazionale dell’immigrazione (oltre 120 Paesi membri, sede centrale a Ginevra) commenta: «Al momento non abbiamo informazioni sufficienti, non possiamo né confermare, né smentire» . Tuttavia Petzold dà una mano a ragionare sulle vecchie rotte che portavano in Europa, via Italia, migliaia di immigrati. Il punto su cui poggiare il compasso era la lunga costa libica, nel Golfo della Sirte. Lì terminavano tre itinerari di lunga percorrenza, con partenza dal Mali; dalla Nigeria, (passando per il Chad), dal Sudan. Ma ora «il vento del Nord» , che ha già spazzato via due regimi autoritari, costringe a spostare l’attenzione proprio sulle ali egiziane e tunisine finora rimaste marginali. Certo, forse ci vorrà un po’, perché, come avverte Guido Bolaffi, esperto di immigrazione e direttore del s i t o tematico www. west-info. eu, «il timore di rimanere intrappolati in manifestazioni e disordini potrebbe frenare una parte degli outsider in arrivo dal Centrafrica» . Al contempo sarebbe sbagliato sottovalutare il richiamo di frontiere praticamente incustodite. Le correnti di immigrati potrebbero capovolgersi rispetto al recente passato. L’Egitto, per altro, è già da qualche mese il caposaldo di una linea che si spinge fino alla Turchia e da qui alla Grecia e poi al resto d’Europa, Italia compresa. Fino a non molto tempo fa i clandestini in partenza dalle coste egiziane puntavano su Bengasi. E la stessa cosa facevano, sull’altro fianco dei confini libici, i tunisini, che salutavano il loro Paese, a Ben Guerdane, lasciandosi alle spalle gli ultimi contrabbandieri di benzina, e si imbarcavano nel porto libico di Zuara. A questo punto le parti si potrebbero invertire. Le organizzazioni criminali, che amministrano una vera e propria filiera su scala «industriale» , si troverebbero a disposizione un fronte inaspettatamente più largo. Il traffico clandestino potrebbe ritornare sulla pista libica per poi rifluire da Bengasi verso l’Egitto e da Tripoli verso la Tunisia. Per il momento fonti diplomatiche di vari Paesi europei interpellate al Cairo, Khartoum (Sudan), Algeri e Tunisi, escludono che possano aprirsi canali diretti con i Paesi centroafricani, alternativi alla Libia. Di nuovo uno sguardo all’atlante, allora. Sul versante Sud dell’Algeria premono Mali e Niger. La linea di confine è interminabile, ma il governo di Algeri, oggi assediato da un forte blocco islamico, ha un interesse vitale a mantenere una sorveglianza ad alta intensità: evitare il passaggio di terroristi (Al Qaeda, ma non solo). Finora la cerniera sui porti ha retto abbastanza bene, specie nella zona orientale. L’Italia ha siglato con l’Algeria un accordo di riammissione degli immigrati clandestini nel 2006. Da allora i giovani Harraga, «coloro che bruciano i passaporti» per saltare sulle barche in fuga, si sono quasi azzerati. Circa 1.600 partenze nel 2008; 400 nel 2009; 250 nel 2010. Tutti, o quasi, sono stati ripresi nei terminal di arrivo, le decine di insenature tra Cagliari e Pula, e rispediti a casa. Ma se il governo di Algeri non dovesse reggere, quella porta si riaprirebbe subito, insieme con quella di Orano (a ovest), di fronte alla Spagna. Sull’altro estremo della cartina, gli esperti e i diplomatici sul campo considerano improbabile che emerga una direttissima Sudan-Egitto. Le vie di collegamento non sono buone, i costi sarebbero troppo alti. E allora, per logica o semplice calcolo delle probabilità, non resta che la doppia freccia (per Tunisi o per il Cairo) sul traballante rondò libico.
Giuseppe Sarcina