Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  febbraio 18 Venerdì calendario

IL COMPUTER CHE VINCE IL QUIZ ORA STUDIA DA SUPERMEDICO

Alla fine ha vinto la macchina. Watson il supercomputer dell’Ibm ha battuto due campionissimi di Jeopardy!, il più popolare quiz americano. Per l’umanità trattasi di "cappotto", il cervellone dopo tre giorni di sfida è "uscito" dallo studio con un gruzzolo di 77mila dollari contro i 24mila di Ken Jennings e i 21mila di Rutter. Quattordici anni fa a uscire vincitore era stata sempre una macchina di Ibm, il famigerato DeepBlue che aveva prevalso su Gary Kasparov, considerato il migliore giocatore di scacchi vivente. Questa volta però la sfida ha un significato completamente diverso.

Rispondere a un domanda di un quiz comporta comprendere il linguaggio naturale, risolvere le ambiguità delle parole e ottenere l’informazione corretta. Mentre il cervello umano produce nel processo conoscitivo un gran numero di indici che vengono aggiornati con le nuove informazioni, la macchina deve essere istruita, per competere con noi deve usare la forza bruta, muoversi rapidamente tra una gran mole di dati e poi decidere se una informazione è affidabile o meno. In altre parole, mentre noi discerniamo tra le fonti, il computer ricorda tutti i dettagli ma ha difficoltà ad estrarre l’informazione richiesta. «Watson è meticoloso», spiega Roberto Sicconi direttore al centro di ricerca T.J. Watson dell’Ibm del programma DeepQA New Opportunities. «Processa ogni componente della frase all’interno dei testi che ha a disposizione per ottenere una serie di risposte che poi ordina con un criterio di probabilità». Per un computer è una operazione muscolare, che richiede tantissima potenza di calcolo.

Nel particolare, Watson ha usato 15 terabytes di memoria Ram, 2.880 processori core per una performance di 80mila miliardi di operazioni al secondo e consumi nell’ordine del kilowatt. Il cervello umano con una barretta di cioccolato produce 18 miliardi di miliardi di operazioni al secondo e consumi intorno a poche decine di Watt. Quindi pur restando incomparabilmente più efficienti, siamo stati un’altra volta sconfitti da una tecnologia. Eppure, la vittoria non era matematicamente certa. Anzi, a sentire i ricercatori di Ibm c’era un ampio margine di errore. I concorrenti, ha spiegato Sicconi, possono prendersi un rischio, premere in anticipo il pulsante scommettendo che la risposta "arriverà". La macchina invece non è capace di bluffare. Gli bastano pochi istanti per interrogare il suo ricchissimo database e scovare il nome di chi ha costruito la prima piramide ma non rischia. Inoltre non è capace di collegare informazioni molto distanti tra loro, non usa "scorciatoie" per arrivare alla risposta giusta. Mentre gli esseri umani classificano i propri ricordi con le emozioni, in un certo senso indicizzano la propria memoria con sensazioni, situazioni ed esperienze che si accumulano ogni istante, ogni ora, ogni giorno della vita, Watson non ha una "vita" a cui attingere ma solo database, potenza di calcolo e algoritmi. In altre parole, non possiede una visione del mondo. Ogni volta che si spegne riparte da capo.

Eppure, ha vinto. Anche senza visioni del mondo e strutture emotive. Ora, come è avvenuto nel caso di DeepBlue, si lavora alle applicazioni. Perché – vincita a parte – queste tecnologie sono sviluppate per creare business. Tra i progetti quello più avanzato è una sorta di assistente medico capace di analizzare i database mondiali e sulla base dei sintomi del paziente fornire una rosa di possibili patologie. Una specie di Pico della Mirandola in camice bianco da affiancare al medico. Sta già accadendo nella Scuola di medicina del Maryland e alla Columbia University.

Con una missione: rispondere ai pazienti. In pochissimi secondi.