Michela Finizio, IL Sole 24 Ore 18/2/2011, 18 febbraio 2011
IL TRUCCO DELLA RETE? L’INDOTTO
Mariana Juliette è nata a Sofia, cresciuta nella Bulgaria comunista, con il sogno di viaggiare. Oggi parla sei lingue e, grazie a Facebook, vive tra Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti promuovendo il suo business: gestisce due piattaforme di marketing online e una di e-commerce, ed è una mamma felice e orgogliosa. La sua è solo una delle tante storie raccontate nella pagina stories.facebook.com, decollate grazie al social network. C’è chi è diventato ricco vendendo pixel, chi si è praticamente fatto regalare una casa, chi - come l’italiano Paolo Conti (fondatore di Too Lazy to do it) - promuove piattaforme per la condivisione di idee creative, con l’obiettivo di raccogliere fondi. Idee originali, capaci di far piovere soldi anche solo per un’ora su chi le ha inventate, oppure di creare business su scala globale. I numeri parlano chiaro: ogni giorno su Facebook gli utenti caricano 20 milioni di applicazioni; altre 50mila rendono invece Twitter un ecosistema vitale. A gennaio Google, che conta 24.400 dipendenti nel mondo, ha annunciato di voler assumere 6mila persone entro la fine dell’anno.
A quanto pare nella galassia dell’economia della conoscenza, resa possibile dal trionfo della tecnologia, sembra esserci spazio per tutti. Ma i riflessi reali sul mercato occupazionale, quelli "duraturi" che incidono sui trend di lungo periodo, ci sono davvero? Qualcuno inizia a metterlo in discussione: la tesi dell’economista Tyler Cowen è critica nei confronti dell’effettiva produttività della rivoluzione tecnologica (si veda l’articolo Facebook darà amici ma non lavoro pubblicato ieri sul Sole 24 Ore). I mezzi consentono una rivoluzione strabiliante, ma sembra ormai evidente che per leggere il cambiamento bisogna cambiare occhiali da vista: «Con la rivoluzione industriale - prova a spiegare il sociologo del lavoro Domenico De Masi - siamo passati dal paradigma "pochi producono per pochi" al "pochi producono per molti". Oggi assistiamo a una terza fase: "molti producono per molti". Nell’era di Wikipedia e Facebook tutti passano da fruitori ad autori, indistintamente». Non è più il tempo di quando General Motors, nel 1990, occupava 300mila operai e 100mila impiegati, per produrre 7,9 milioni di autovetture. Oggi al concetto di "posto di lavoro" si sostituisce quello di "potenzialità di lavoro". In altre parole l’economia del profitto lascia il posto all’economia della conoscenza, dove «non c’è più spazio per chi ragiona con la logica delle otto ore lavorative. Il passaggio è quello tra l’occupazione industriale e quella post-industriale», sintetizza De Masi.
Partite Iva, collaborazioni, prestazioni occasionali sfuggono all’universo statistico che legge il mercato del lavoro. «Ormai in ogni azienda, scuola, band musicale, partito, centro commerciale o panetteria, c’è qualcuno che cura la presenza su internet - afferma il sociologo -. Fenomeni nuovi non possono essere misurati con indicatori vecchi». Per fare un esempio De Masi racconta di aver pagato 1.800 euro un ragazzo per lo sviluppo di una pagina web: «Ci lavorerà un paio di giorni». Milioni di persone, come lui, oggi lavorano in questa galassia, ma restano "invisibili" alle statistiche. Secondo le previsioni, nel 2020 saranno 2,5 miliardi le persone che avranno dimestichezza con un telefonino: «Quanto e-commerce ci sarà? Chi gestirà l’esplosione del sistema dei micropagamenti? È un mercato del lavoro potenzialmente infinito», aggiunge De Masi.
Non tutto, però, quello che nasce su internet fa business. «Parliamoci chiaro: il web toglie anche dei posti di lavoro. Dell’intermediazione, ad esempio, non avremo più bisogno. Inoltre non tutti si serviranno di questi mezzi e, per alcuni, continueranno a essere solo distrazione», commenta il sociologo Francesco Morace, fondatore del Future Concept Lab. «Nuove forme occupazionali nascono spontaneamente nel mondo della condivisione digitale, ma solo nella selezione di ciò che vale qualitativamente si giocherà la vera sfida occupazionale», conclude Morace.
All’università La Sapienza di Roma il team di Domenico De Masi ha condotto una ricerca sui disoccupati italiani, dalla quale emerge che mediamente ciascuno di loro trascorre circa 2 ore e mezza al giorno su Facebook. Se davvero su internet c’è spazio per tutti, questo dato potrebbe essere un buon segnale: basta essere capaci di trovare un ruolo nell’ecosistema della conoscenza. Paradigmi permettendo.