Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  febbraio 17 Giovedì calendario

IL DOMINO ARABO

Negli ultimi tre anni non hanno quasi mai dormito nello stesso letto, hanno bruciato migliaia di carte telefoniche, hanno combinato l´uso dei social network alla ferrea disciplina dei monaci tibetani, le tecniche di guerriglia degli hooligan del tifo calcistico alla precisione dei chirurghi. Hanno viaggiato in giro per il mondo per confrontarsi con quelli che ce l´avevano fatta. Hanno letto, studiato, saccheggiato data base. La rivoluzione non s´inventa. Bisogna imparare tutto. Come resistere alle pallottole di gomma, come comportarsi durante un interrogatorio, come mobilitare le masse, come attrezzare case sicure, come organizzare barricate e soprattutto come sfuggire alle maglie della polizia segreta. Scambiarsi consigli pratici, insomma. E la tecnologia del terzo millennio, Facebook e Twitter in primo luogo, sembrava fatta apposta per i loro disegni. Haret el Mamar street, il numero civico è meglio non precisarlo, quarto piano.
Siamo in pieno centro del Cairo. Eccolo l´ultimo domicilio conosciuto dei ragazzi che hanno fatto crollare il tempio di Mubarak. Under 30 per lo più. Uomini e donne. Studenti, laureati, musulmani, cristiani, ma anche operai e disoccupati. Senza leader politici e senza capi, uniti solo dallo stesso filo rosso: la voglia di cambiamento.
Ce l´hanno fatta, Mubarak è ormai lontano e morente. E in queste cinque stanze, dove regna la confusione più totale e si può inciampare in una scarpa, un bicchiere, una tazza, solo i pc sono tirati a lucido come spade di samurai. Le armi della vittoria.
Mohamed Adel, 22 anni appena, programmatore informatico, famiglia borghese è uno degli autori di questo miracolo. Dei quattromila che tre anni fa hanno dato vita al movimento «6 aprile», la data in cui nel 2008 a El Mahalla, città industriale sul delta del Nilo, una manifestazione di tessili fu sedata nel sangue. E poi c´è stato Khaled Said, il blogger massacrato di botte dalla «Amn el dawala», la polizia segreta, per aver messo su You tube un video in cui si vede un gruppo di agenti coinvolti nel narcotraffico. I poster con la bella faccia di Khaled tappezzano i muri. Un´icona per quelli del «6 aprile», non l´unica però. Perché anche il docente americano Gene Sharp, teorico della strategia di resistenza nonviolenta e il movimento studentesco serbo «Otpor», che fece cadere Milosevic, hanno giocato la loro parte.
In Egitto a far data dal 2006 l´unica opposizione al regime degna di questo nome era rappresentata da «Kefaya», che vuol dire basta. Un circolo di intellettuali - avvocati, sindacalisti, artisti e scrittori - che si limitava a dibattiti, conferenze e qualche sit in, senza minimamente impensierire il potere. «Dobbiamo ringraziare anche loro - spiega Mohamed - che ci hanno fornito consigli e materiale prezioso sulle malefatte del potere. E soprattutto nomi. Per provare a vincere dovevamo prioritariamente, come teorizza Sun Tzu, conoscere bene il nemico. E solo dopo passare all´azione. Ma non avevamo alcuna esperienza. E quindi decidemmo di studiare da vicino le rivoluzioni che avevano avuto successo. Tipo Cile, Sudafrica, Ukraina e Serbia. A me toccò di partire per Belgrado. Biglietto aereo e hotel pagati dai fratelli di Otpor. Ci sono stato due settimane, un vera e propria full immersion, meglio di un master. Non solo ho appreso tecniche e trucchetti da hacker, ma ho anche imparato a comunicare con chi non ha grandi mezzi culturali».
Il più era fatto, ora c´era da mettere in piedi la Rete. «Coinvolgere cioè nel nostro progetto quella parte del mondo arabo che voleva finalmente voltare pagina. E fu così - continua Mohamed - che iniziammo a scambiarci informazioni, data base, suggerimenti con tunisini, algerini, siriani, libici, iraniani. D´altra parte avevamo tutti la stessa, maledetta voglia di democrazia. Venerdì 25 gennaio come ormai tutti sanno fu il nostro battesimo del sangue. Eravamo riusciti a mobilitare con sms e attraverso Facebook decine di migliaia di persone in piazza Tahrir. Fu un massacro: morti, feriti, perquisizioni, arresti, torture e caccia ai ‘terroristi´ che poi eravamo noi del ‘6 aprile´. E fu allora che il regime mandò in tilt cellulari e spense internet. Volevano accecarci. Gamal, il figlio del raìs destinato a succedergli, il vero regista della violenta repressione aveva finalmente capito che attraverso la tecnologia potevamo fregarlo. Ma per fortuna era tardi, il più era fatto. La gente aveva finalmente conosciuto la vera faccia del regime. Molti di noi furono costretti a nascondersi. Ma la gente, soprattutto la povera gente ci ha protetto e nessuno ci ha traditi. La nostra causa era la loro causa. Al Jazeera, i telefoni fissi, quelli satellitari e i cari, vecchi volantini ci hanno dato la possibilità di bypassare il blocco e di continuare la lotta. E poi avete visto tutti com´è finita».
Chissà se questo patrimonio di intelligenze e conoscenze diventerà mai un partito, certo è che i numeri sono tutti dalla parte dei giovani attivisti del «6 aprile». Dai quattromila di partenza, Adel, che nel frattempo è divenuto responsabile del rapporto coi media del movimento, prevede si sia già vicini al milione. E tutto questo senza soldi e senza sponsor politici.
Che a ideare Facebook sia stato Mark Zuckerberg o i gemelli Winklevoss, che gli hanno peraltro fatto causa per furto di proprietà intellettuale, alla fin fine è un dettaglio. Di un mucchio di miliardi di dollari, ma pur sempre un dettaglio. Quel che è certo che nemmeno menti così brillanti come quelle dei giovani inventori americani del social network più cool del pianeta, avrebbero mai potuto immaginare che grazie alla loro «creatura» - qualche anno dopo in Medio Oriente - un pugno di loro coetanei, avrebbero costretto alla resa, nel volgere di poche settimane e senza sparare un sol colpo, dittatori di lunghissimo corso. Il tunisino Ben Ali prima, e subito dopo l´egiziano Hosni Mubarak. E adesso, chi sarà il prossimo? A chi toccherà, al libico Gheddafi, all´algerino Bouteflika, al siriano Assad o all´iraniano Khamenei? Il dado è tratto. E i ragazzi terribili della generazione internet non hanno alcuna intenzione di fare prigionieri. È solo questione di tempo.
RENATO CAPRILE , la Repubblica 17/2/2011