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 2011  febbraio 17 Giovedì calendario

COSÌ FLI SPROFONDA TRA GELOSIE E VELENI

Se il Fli si divide non è solo per una questione di prefissi, non è semplicemente una separazione tra quanti si professano anti-berlusconiani, post-berlusconiani e a-berlusconiani. La rottura è più profonda, pre-politica, è una lacerazione di rapporti personali, un miscuglio di invidie, sospetti, gelosie.
La diaspora tra finiani è anche — forse soprattutto — una questione di viscere, è «una rottura emotiva talmente lacerante — dice Viespoli — da farti sentire svuotato, senza nemmeno più la forza nè la possibilità di prendersi a schiaffi» . Perché in quella comunità lo scontro fisico era a suo modo un segno di fratellanza, un rito che si è perpetuato anche dopo la nascita del Fli, nelle zuffe tra Moffa e Granata alla vigilia del voto di fiducia del 14 dicembre, nel lancio di penne tra Fini e Barbareschi alla vigilia dell’Assemblea costituente. Insomma, era un collante che teneva insieme un mondo.
Ma forse è un altro mondo quello che il leader futurista vuole costruire, così si spiega anche la scelta del post-radicale e laicista Della Vedova a capogruppo della Camera. Il taglio con il passato ha portato però l’ex leader di An a recidere il cordone ombelicale con la vecchia guardia che l’aveva seguito nella nuova intrapresa. E in pochi mesi la foto di gruppo scattata a Mirabello si è strappata, aprendo una crisi che non ha precedenti nella storia politica, perché non si è mai visto un partito che appena nato si lacera tra invidie e gelosie.
È Bocchino il pomo della discordia, «il guerriero» , come lo chiama Fini, un quarantenne con capacità organizzative e presa mediatica, quando in tv si presenta in maniche di camicia e senza giacca. È lui il prescelto, ed è sul vice presidente del Fli che gli altri accentrano i propri strali indirizzati in realtà al capo. Questo connubio è causa dei dissapori, ed è guardato anche con sospetto. È un legame politico che via via è diventato personale e poi ancora familiare. A Bocchino, Fini ha affidato la costruzione del partito e delle relazioni, c’è lui per esempio all’origine del rapporto che si è stabilito tra il presidente della Camera e Carlo De Benedetti. È stato Bocchino ad esporsi nello scontro con Berlusconi, e sempre a Bocchino è toccato l’ultimo tentativo di mediazione con il Cavaliere. Ed è per questo che i suoi detrattori dicono «Gianfranco fa quello che gli dice Italo» .
C’è la sua mano nell’organigramma del Fli deciso da Fini, questa è l’accusa: la tesi è che la lista fosse stata stilata dai due prima delle assise di Milano. Così non sarebbe più un giallo quanto è accaduto a Urso, salito sull’aereo per Roma convinto di essere capogruppo e che all’atterraggio si è ritrovato portavoce. Urso a quel posto di Montecitorio ci teneva, ma soprattutto teneva al rapporto con Fini. Perciò il suo dolore ha origini personali prima ancora che politiche, a tormentarlo è «il cinismo di Gianfranco» , non il fatto di essere stato «epurato» : «Perché io -ha confidato — ho dato tutto e messo tutto in gioco. Persino in famiglia, dove c’era chi non condivideva la mia scelta» . Così come per anni aveva vissuto all’ombra di Fini senza mai l’ombra di un conflitto, così ora in silenzio vive un dramma interiore. Non è dato sapere se accoglierà l’invito che il presidente della Camera gli ha fatto pervenire, se accetterà l’incarico di portavoce del partito. Di certo non se ne andrà, quantomeno non ora, «non posso andarmene per una poltrona. Ma non posso tollerare di venir trattato come una persona di cui diffidare» .
Come Urso anche Ronchi si dispera senza aprire bocca. L’ha fatto solo una volta, in faccia a Fini: «Mi sono speso per questo progetto. Al punto che ero ministro e non lo sono più» . «Non eri certo ministro per virtù dello Spirito santo» , si è sentito rispondere gelidamente. Più che la diaspora politica— con la frantumazione del gruppo al Senato segno evidente della crisi— è la diaspora umana a colpire. Quasi fosse senza forze, Viespoli spiega come «nel decidere gli organigrammi, Fini non abbia fatto un errore ma una scelta. E c’è chi, come me, non era funzionale a quella scelta di linea politica e di gestione del partito» .
Così si torna a Bocchino e al suo ruolo di primattore. È sincero il vicepresidente del Fli quando auspica che «si possa recuperare il rapporto con Urso, il migliore» . E dicendolo, lascia intravvedere i galloni del comando che gli ha affidato Fini, frutto di un rapporto forgiato nel fuoco, «perché nel 2006 ero capo dell’organizzazione di An e leader del partito a Napoli, quando Fini mi fece comunicare da un suo assistente che mi erano stati tolti gli incarichi. Non feci polemiche, non rilasciai dichiarazioni. In silenzio recuperai il rapporto. E questo è quanto» . Come a zittire le malelingue. Dice di aver «bisogno di un anno per metter su il partito» , dice che «non si può prevedere il futuro quando c’è un cambio di sistema» , dice che «la scommessa del Fli andrà misurata nell’arco di tre anni» , dice che «questa non è una partita per stomaci deboli ma per stomaci forti» .
Dice Bocchino ed è come se parlasse Fini. Una cosa che per tanti finiani è diventata nel tempo inaccettabile.
Francesco Verderami