Alessandro Agostinelli, Il Riformista 16/2/2011, 16 febbraio 2011
ITALIA FEDERALE LA PRIMA VOLTA FINÌ NEL SANGUE
C’era già stata una nazione italiana federata, ma era durata il tempo di un respiro. Era il tentativo di far crescere uno Stato unitario federato, dalla frammentazione proto-leghista del tempo. Era il 1389 e in largo anticipo sul Risorgimento, Pietro Gambacorti, signore di Pisa, dette vita al primo progetto politico di unità nazionale, con un testo dell’atto rogato da tredici notai imperiali e firmato il 9 novembre 1389 a Palazzo Gambacorti. Era un accordo politico solenne e programmatico firmato in calce dai signori delle più importanti città italiane del periodo: Bologna, Ferrara, Firenze, Forlì, Lucca, Mantova, Milano, Monforte, Perugia, Pisa, Ravenna, Siena, Urbino. Si deliberava il tentativo di mettere in piedi una confederazione di stati-città che sarebbe potuta essere la prima e concreta sperimentazione dell’unità nazionale. Nell’atto si decretava:
- che i confederati dovessero pubblicamente e fra di loro difendersi dagli attacchi estranei;
- che nessuno degli aderenti potesse muover guerra ad alcuno senza il consenso degli altri;
- che vi fosse libertà di commercio, di trasporto e di traffico di viveri e merci, sì per terra che per fiumi in tutti i luoghi dei confederati;
- che nessuno per l’avvenire dovesse più avvalersi delle Compagnie di Ventura, meritevoli di essere respinte come quelle che avevano tutto l’interesse di far nascere inimicizie fra vicine città, per prestar poi la loro opera mercenaria al maggior offerente; a tale effetto si impegnavano gli aderenti di tener pronte sempre 1075 lance.
Il sogno politico di Gambacorti metteva in evidenza il problema dell’epoca, cioè le Compagnie di Ventura, che altro non erano che truppe mercenarie al servizio del padrone o del Signore che pagava meglio. Una specie di bande di trasformisti al soldo del miglior offerente. Esse avevano (come si legge nell’atto di costituzione della prima unità d’Italia) “tutto l’interesse di far nascere inimicizie fra vicine città”. A questo scopo sembra che la maggior preoccupazione del Signore di Pisa fosse quella di costituire una sorta di esercito nazionale federato (composto da 1075 lance, cioè soldati) pronto a difendere le varie città aderenti “dagli attacchi esterni”. Al fine di un’estensione temporale della pace sembra molto valido il punto in cui si sostiene che nessuna di queste città potesse muovere guerra ad un’altra confederata, senza il consenso di tutte le altre. Mentre sembra economicamente liberale l’idea di detassare in qualche modo gli scambi tra tutte queste città-stato, in modo da favorire pienamente lo sviluppo dei commerci.
Da dove nasceva questo desiderio di unità che teneva insieme in pace quasi tutta la penisola, dando il via alla formazione dell’Italia?
Il nome Italia, in antichità, faceva riferimento a una piccola ex colonia greca, situabile in Calabria, in una zona piuttosto estesa intorno a Rossano Calabro. Tale nome, con lo sviluppo di Roma, fu esteso a buona parte della penisola italica. È con Dante Alighieri che il termine si definisce meglio, quando nel VI canto del Purgatorio descrive negativamente il degrado civico dovuto alle guerre intestine che imperversavano alla fine del Duecento: “Ahi serva Italia, di dolore ostello/nave senza nocchiere in gran tempesta/non donna di provincie, ma bordello!”.
Ma è con Petrarca che l’Italia diventa un concetto-nazione, non più riducibile allo stato-città. Nel suo modo di intendere le vicende storiche e culturali della penisola, il poeta si avvicina molto all’idea di Stato italico, quasi come siamo abituati a pensarlo noi oggi.
E forse Pietro Gambacorti, nel 1389, prese l’idea dell’unificazione proprio da Francesco Petrarca che nella primavera del 1345 aveva scritto la famosa canzone “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”. Lo scopo principale di questa poesia civile era di deplorare l’uso, da parte dei signori italiani, di milizie mercenarie, iniziato con la spedizione di Ludovico il Bavaro e incrementato dopo il 1342, quando Guarnieri di Urslingen aveva fondato la “Grande compagnia”. Certamente i due pensieri, quello del Petrarca e quello del Gambacorti, coincidevano fortemente. Il primo lamentava letterariamente l’assenza di unità nel Paese; il secondo costruiva concretamente un atto politico unitario che al posto di un accordo temporaneo d’interesse (politico o economico che fosse), poneva le basi per un’unione in cui si poteva governare di comune accordo la politica estera delle varie città-stato.
Ma cosa accadde al primo atto solenne di unificazione dell’Italia?
Pietro Gambacorti che aveva cominciato la sua Signoria di Pisa nel 1369, coltivando un governo giusto e saggio, dopo il suo ambizioso progetto di unione federativa tra tutti gli stati signorili e principeschi della penisola italica, venne scalzato dal potere cittadino e assassinato perché i Visconti di Milano scatenarono una guerra scendendo in Toscana dove trovarono Iacopo d’Appiano che tramava proprio alle spalle del Gambacorti. Nel 1399 il figlio di Iacopo vendette la città ai Visconti per 200mila fiorini.
Si dovrà aspettare oltre mezzo millennio per vedere realizzato pienamente il sogno di un politico preveggente (con l’unità del 1861 e la fine del potere temporale Vaticano nel 1870). E oggi, quel che al tempo si ruppe con la spada si tenta di scardinare modificando la Costituzione.